Ora si canta la Resistenza contro gli storici revisionisti

Furono tre guerre in una: patriottica, degli italiani contro i tedeschi invasori; civile, dei partigiani contro i fascisti italiani; di classe, degli operai contro i padroni. Questa interpretazione della Resistenza è ormai un «classico» della storiografia; venti anni fa, nell’elaborarla, Claudio Pavone tenne conto di un materiale variegato, in cui accanto ai documenti tradizionali (lettere, relazioni ufficiali, diari, carte di polizia, stampa clandestina) confluivano anche complessi documentari allora poco frequentati dalla ricerca storica, come le canzoni. Oggi, le canzoni raccolte da Gioachino Lanotte in Cantalo forte ci restituiscono con straordinaria puntualità i motivi salienti delle «tre guerre»; quella patriottica («Per guidar l’Italia libera/ e scacciare l’invasor/ per i monti e per le piane/ avanzaron i partigian», Con il freddo e con la fame), quella civile («Un giorno mi han portato in tribunale/ dicendo se conosco il mio pugnale/ Sì sì che lo conosco ha il manico rotondo/ nel cuore dei fascisti lo piantai a fondo», Quei briganti neri) e quella di classe («Son proletari i partigiani/sono del popolo lavorator/ un dì sfruttati incatenati/ oggi son essi i liberator», Son proletari i partigiani).
Nel suo libro Lanotte ha fatto riferimento a una bibliografia che ormai conta decine di titoli e che ha attraversato in maniera compiuta ed esaustiva tutto l’universo dei canti partigiani. La novità è data proprio dal criterio esplicitamente storiografico (il modello Pavone appunto) utilizzato nella raccolta e, soprattutto, dall’aver affiancato ai canti «della Resistenza» quelli «sulla Resistenza», le canzoni che hanno raccontato la Resistenza, 20, 30, 50 anni dopo. Da un lato la storia, dall’altro la memoria; cambia lo spirito del tempo, cambia la colonna sonora.
Questo viaggio musicale nel ricordo della Resistenza riserva le sorprese più gradite: prima il registro poetico dei Cantacronache, così realistico, così alla «partigiano Johnny», così tipico di quella riscoperta della Resistenza che caratterizzò i primi Anni 60 («Non è detto che fossimo santi, l’eroismo non è sovrumano, corri, abbassati, dai, balza avanti, ogni passo che fai non è vano», Oltre il ponte di Calvino e Liberovici); poi – con l’antifascismo militante degli Anni 70 – i toni si fanno più monumentali, il ricordo si affolla di momenti epici e degli eroi cantati dai Nomadi, nel 1978, (Joe Mitraglia) e dagli Stormy Six, nel 1975 («L’ho visto una mattina sulla metropolitana/ E sanguinava forte, e sorrideva. Su molte facce intorno c’era il dubbio/ e la stanchezza/ Ma non su quella di Dante Di Nanni”, Dante Di Nanni); un sussulto breve, intenso, prima del disincanto e dell’oblio degli Anni 80, che ci consegnano i versi amari e disillusi di Pierangelo Bertoli, con il suo partigiano ridotto a «ombra vagante senza più una meta/ di una storia buttata in un sogno strano/ Tradito dalla fede, abbandonato dal partito/ ricordo di un tempo ormai lontano», (Nicolò, 1982). Sembrava tutto finito. Sepolta dalla retorica ufficiale e dalle rimozioni interessate, la Resistenza sprofondava lentamente nell’oblio. E invece…
Dagli Anni 90 in poi, una nouvelle vague musicale se ne è riappropriata quasi con furore: gli Africa Unite, (Il partigiano John), gli Stadio («scopri una croce messa lì da chissà quanto e sopra un nome che leggi appena..», Jimmy) e tantissimi altri ancora fino alla straordinaria esperienza dei Modena City Ramblers: «contro i revisionismi e le strumentalizzazioni della nostra storia, una risposta in 15 canzoni resistenti», così veniva presentato sul loro sito l’uscita dell’album Appunti partigiani, realizzato per celebrare il 60° anniversario della Liberazione, nel 2005. Abbiamo cominciato con le canzoni-documenti, fonti per la ricerca storia; arriviamo alla fine con le canzoni «antirevisioniste» che si propongono esplicitamente non solo come strumenti per raccontare la storia, ma come una forma peculiare di storiografia: poco accademica, ma molto efficace per alimentare percorsi della conoscenza e della diffusione del sapere storico che spesso i libri non sono in grado di attraversare.