La nuova lapide che verrà deposta il 16 febbraio sulla tomba di Piero Gobetti ricorda l’intransigenza della sua sfida al fascismo. Non è una parola retorica. È il termine con il quale Gobetti stesso esprimeva il carattere peculiare della sua concezione etica della politica. Meno di un mese dopo la marcia su Roma, Gobetti scriveva su La rivoluzione liberale: «C’è un solo valore incrollabile al mondo: l’intransigenza». In questa frase è racchiuso quello che è stato chiamato «lo spirito del gobettismo». Della sua validità non è difficile far riemergere dalle pagine di Gobetti alcune perduranti ragioni.
L’intransigenza di Gobetti aveva due bersagli: era ovviamente rivolta contro il regime, e fin dalle primissime manifestazioni; ma anche contro «gli italiani che non resistevano, che si lasciavano addomesticare». Si era indignato, in particolare, contro coloro che nel 1922 «si illudevano di trovarsi di fronte ad un fenomeno passeggero, che si poteva vincere con l’astuzia, con cui era opportuno trattare». Nel rifiuto della transigenza corriva sta il senso del celebre articolo intitolato «Elogio della ghigliottina» e della sua conclusione paradossale: «Bisogna sperare che i tiranni siano tiranni, che la reazione sia reazione, che ci sia chi avrà il coraggio di levare la ghigliottina. Chiediamo le frustate perché qualcuno si svegli, chiediamo il boia perché si possa veder chiaro». Rilette oggi, queste parole sembrano suggerire che è difficile contrastare un regime quando si ammanta di libertà e democrazia.
In un articolo del ’24 Gobetti criticava l’identificazione superficiale di liberalismo e tolleranza: «In un paese incivile come l’Italia in cui i governanti, secondo che si sentono più o meno sicuri di se stessi, tendono subito a diventare dei domatori e a trattare i governati come fiere da addomesticare, si può difendere la tolleranza solo con l’intolleranza più inesorabile». Un’altra espressione provocatoria, che esorta a non tollerare l’intollerabile, a non transigere proprio per poter difendere la stessa civiltà della tolleranza.
È nota l’interpretazione gobettiana dell’anti-civiltà fascista come «autobiografia della nazione», come «sintesi, spinta alle ultime inferenze, delle storiche malattie italiane: retorica, cortigianeria, demagogismo, trasformismo». Purtroppo, quelle malattie non sono finite con la fine del fascismo. L’autobiografia è ripresa in altre forme. Ha persino tentato con qualche successo, col revisionismo storico, di diventare agiografia. L’Italia incivile, o scarsamente civile, incapace di riscattarsi davvero dai suoi vizi inveterati, si è mostrata pronta a ricadervi in diverso grado e in vario modo, se non in tragedia almeno in farsa. E torna d’attualità la lezione gobettiana.
Gobetti era consapevole di doversi battere «per un’altra generazione», per preparare l’avvento di un «nuovo tipo morale di italiano», che «non se la intende col vincitore», che «non si arrende alle allucinazioni collettive». Perché non venga un’altra volta a prevalere «l’italiano vecchio», per smascherare nuove e più efficaci allucinazioni collettive, prodotte da un esercito di architetti e di manovali della malafede con l’aiuto di uno stuolo di adulatori e di sicofanti, forse non vi è altra arma efficace, nonviolenta e democratica, se non l’intransigenza gobettiana. Scriveva Gobetti nel 1923: «Il presidente corruttore che contamina e piega ciò che tocca non può nulla contro l’intransigenza». Forse. Intransigenti di tutto il mondo, uniamoci.