Siamo alle solite. Da più di quattro anni, ogni volta che l’Organizzazione mondiale del commercio si riunisce per cercare di concludere i negoziati del ciclo di Doha, le agenzie di stampa vengono sommerse da una ridda di dichiarazioni minacciose che annunciano imminenti catastrofi. Il fronte liberista, ben rappresentato da Tony Blair, ritiene il fallimento del ciclo di Doha «una vera catastrofe». Gli fa eco il direttore generale Pascal Lamy che, durante una conferenza stampa, elogia le meraviglie del “numero venti”: «venti come il G20, o come Swiss20 o come sotto i 20 miliardi di dollari» che sarebbe il tetto sotto il quale dovrebbero assestarsi i sussidi annuali agricoli statunitensi per trovare il compromesso necessario a evitare il «fallimento garantito» del Doha Round.
Per la verità le danze erano state aperte ieri dalla rappresentante statunitense Susan Schwab intervistata dall’agenzia francese France Presse. Quando le è stato chiesto cosa pensa della mini-ministeriale che ha aperto questa mattina a Ginevra, e che proseguirà anche domani nel disperato tentativo di portare a casa qualcosa di concreto, Schwab ha dichiarato che: «Non ci faremo tartassare per concludere un accordo soltanto per rispettare il calendario». Calendario che, sia detto per inciso, è stato fissato proprio sull’agenda statunitense per approfittare al meglio di quella “corsia preferenziale” che dà alla Casa Bianca la possibilità di trattare e firmare per conto del Congresso, al quale viene richiesta soltanto una ratifica finale del tipo “prendere o lasciare”. Il mandato presidenziale scade nel 2007 e a quel punto i rappresentanti del Congresso potranno tornare a dire la loro sugli stringenti accordi del Wto, cosa che spaventa tantissimo i super-burocrati dell’organizzazione multilaterale meno democratica del pianeta.
Getta acqua sul fuoco anche Parigi, per bocca del ministro dell’Agricoltura Dominique Bussereau, che fa sapere di «preferirei un fallimento a un cattivo accordo». Una posizione, quella francese, che si era fatta sentire anche prima della ministeriale di Hong Kong, quando Chirac aveva addirittura minacciato di togliere il mandato a Peter Mandelson, negoziatore europeo un po’ troppo liberista per i gusti dell’Eliseo. Comunque, al di là della solita sceneggiata che precede e accompagna tutti i momenti clou del Wto – da Seattle a Hong Kong, passando per il fallimento di Cancun – e malgrado la mini-ministeriale convocata in fretta e furia per rispettare i tempi e per tagliare fuori un po’ di paesi recalcitranti, l’Organizzazione mondiale del commercio sembra davvero sulla via del tramonto. Sarà perché, come scriveva ieri l’ex-direttore generale Mike Moore sul Financial Times, «Rispetto ai miei tempi, oggi è molto più difficile fare il ministro per il Commercio» visto che «sono emersi nuovi giocatori di peso», fatto sta che l’ambiziosa architettura confezionata dai superburocrati di Ginevra su mandato delle più potenti lobby globali sembra davvero in fase terminale. Di motivi ce ne sono parecchi, non ultimo il passaggio degli Stati Uniti dal multilateralismo di clintoniana memoria all’unilateralismo guerrafondaio di Bush, strutturalmente restio alle regole uguali per tutti ed economicamente costretto al protezionismo per finanziare le sue avventure belliche.
Resta il fatto che, dopo un decennio di liberalizzazioni, i risultati sono tutt’altro che esaltanti. Le conseguenze economiche, sociali e ambientali per i paesi più poveri del mondo a undici anni dalla firma degli accordi dell’Uruguay Round, data di fondazione del Wto, sono abbastanza nefaste. E non lo dicono i soliti anti-capitalisti arrabbiati ma i numeri contenuti nei recenti rapporti redatti da autorevoli centri di ricerca indipendenti come il Carnagie Institute che ha tentato di valutare i possibili guadagni per i vari paesi associati a questo ciclo negoziale, solo per scoprire che i numeri davano ragione ai critici più radicali. Perfino la Banca mondiale, da sempre fautrice dell’agenda delle liberalizzazioni, è stata costretta a ridurre le proiezioni iniziali di crescita: nel 2003 erano sui 500 miliardi di dollari ma nel 2005 precipitano ad appena 96 miliardi, di cui ben 80 a vantaggio dei soli paesi industrializzati. A fronte di questi dati è davvero difficile far passare ancora le ulteriori liberalizzazioni previste dal ciclo di Doha come un “Round per lo sviluppo”, secondo la denominazione un tantino propagandistica inventata quando è stato lanciato, nel 2001.
Al di là di come uno la pensi sulle liberalizzazioni, se poi andiamo a vedere la sostanza, è chiaro che gli attori più forti hanno premuto sull’acceleratore senza nulla concedere. Non è un caso infatti che il Wto rischia di arenarsi proprio sulla questione agricola, ovvero sull’unico settore la cui apertura potrebbe avvantaggiare i paesi del Sud del mondo. Sono dieci anni che Stati Uniti, Unione Europea e Giappone pretendono di tutto e di più senza però concedere nulla, ovvero senza modificare il sistema di aiuti, sussidi o esenzioni fiscali che sostengono le esportazioni di prodotti agricoli nel Sud del mondo, con la conseguenza di rovinare i produttori locali e i singoli paesi a cui è stato imposto di eliminare i sussidi e di rinunciare alle entrate fiscali garantite dalle tariffe doganali. Invece di tagliare il sostegno ai propri agricoltori o di mostrare più clemenza verso quei paesi che non ce la fanno ad adeguarsi ai dictat del Wto senza danneggiare pesantemente le proprie economie, i grandi dell’economia globale hanno continuato a rilanciare mettendo sempre più carne al fuoco delle liberalizzazioni.
Non deve stupire quindi se paesi sempre più emergenti come India, Cina e Brasile, abbiano puntato i piedi. Perché accettare l’intrusione delle megacorporation occidentali in aree strategiche come i servizi, gli investimenti, la sanità e via dicendo senza avere niente in cambio? Considerando che quei tre paesi insieme stanno di fatto trainando la crescita globale – anche prendendo per buoni i conti truccati della “crescita” statunitense – è ovvio che abbiano tutto l’interesse a esercitare il loro notevole peso per ottenere una vera reciprocità nelle relazioni commerciali. Ma il Wto non è stato fondato per questo e le sue regole sono profondamente viziate da un approccio coloniale mal dissimulato: basta chiedere di vederle applicate a tutti in modo equo per far saltare il banco. Ben venga quindi la crisi di un’organizzazione che ha fatto dell’opacità la sua bandiera, soprattutto se questa crisi può aprire lo spazio per un sistema di regole più equo e trasparente dove venga rispettata la sovranità nazionale dei più forti come dei più deboli e dove trovino udienza anche problemi epocali – la crisi ambientale, i diritti umani, la disparità crescente fra una minoranza scandalosamente ricca e una maggioranza sempre più povera – che il mercato da solo ha dimostrato di non saper risolvere.