Ora Bertinotti deve convincere i suoi

Da un lato il carisma, dall’altro i numeri. L’ultima battaglia di Fausto Bertinotti presenta una novità, e non da poco. Per la prima volta Fausto rischia di essere messo in discussione nel suo partito. Già, proprio così: nel suo partito. Lui, l’uomo delle svolte, il socialista lombardiano che ha rianimato i comunisti che non volevano ammainare la loro bandiera, lui che in nome della non violenza e del rapporto con i movimenti ha portato al governo Rifondazione archiviando, con lo stalinismo, una certa visione del comunismo, ora è all’ultimo miglio. Oggetto della contesa: un governo istituzionale per il dopo Prodi. Alla vigilia della direzione del Prc di sabato, gran parte del gruppo dirigente è contrario a questa ipotesi. E i riposizionamenti interni degli avversari della Cosa rossa sono continui. Forse questo pezzo di Prc ha i numeri dalla sua. E non è escluso che sabato ci sarà la conta. Fonti vicine al presidente della Camera parlano di un Bertinotti «amareggiato», «contrariato», i cui contatti col partito, in questi ultimi tempi, si sono diradati. Ma forse non sono i numeri l’aspetto più significativo della vicenda. La politica non è solo matematica, è anche suggestione, elemento evocativo, che in un’assemblea può diventare riflesso condizionato. Lo sanno anche gli avversari di Bertinotti che in queste ore tutto ostentano fuorché sicurezza. La politica è anche carisma. E, a vederla da lontano, questa storia sembra davvero l’ultima sfida, forse la più importante, del cammino di un leader.
Lui, Bertinotti, ha un disegno, e in questi anni lo ha perseguito. Quello che Pansa bollò come il «Parolaio rosso» tra un talk show e l’altro qualcosa l’ha detta. Magari non solo qualcosa. E di segni nel corpo del suo partito ne ha lasciati. Forse neanche tanto superficiali. In tanti convegni, dichiarazioni, interviste, ragionamenti lunghi, e spesso lunghissimi, ha spostato l’asticella sempre più avanti. Non ha fatto una Bad Godesberg, e nemmeno una Bolognina, ma ha provato a trasformare la svolta in una lunga marcia, cercando di evitare rotture e, come si dice, volando alto. Forse anche troppo per il suo partito, oltretutto in tempi in cui nessuno sa neanche cosa sia quello che nel Pci si chiamava «lavoro culturale». Lui, infatti, le sue plebi in popolo non le ha trasformate. Qui il limite e la forza del suo carisma: resiste e seduce a dispetto dei tanti mutamenti di rotta (dalla contestazione, a Genova, dei potenti della terra agli apprezzamenti a Sergio Marchionne), ma senza riuscire a fare fino in fondo i conti con la realtà. A ben vedere i bertinottiani sono pochi perché lui o è il partito o non è.
Si è sempre definito comunista, ma nel suo discorso la parola è diventata più concetto che storia («un processo aperto e indefinito» disse una volta a proposito dell’attualità del comunismo). E anche il suo partito è diventato sempre meno “comunista”. Tassazione delle rendite, redistribuzione del reddito, meno flessibilità, sono parole classiche delle sinistre socialdemocratiche. Ma guai a dirsi socialdemocratici, seppure di sinistra. È anche vero, però, che di tabù Bertinotti ne ha infranti di pesanti come statue. Nell’ottantesimo anniversario della fondazione del partito comunista – era il 2001 – pronunciò un discorso violentemente antistalinista. Seguì l’autocritica sulle foibe («Sono state minimizzate»), e, infine, la scelta per la non violenza senza aggettivi, che nella sinistra estrema non era e non è un’ovvietà. In questi anni lui è stato Rifondazione. E l’ha ulteriormente decomunistizzata portandola al governo: la radicalità, in fondo, è diventata più uno stile di pensiero che un comportamento collettivo (basti pensare alle primarie dell’Unione). Ma alla prova del governo la sua svolta, forse, si è mostrata insufficiente. Alfonso Gianni, vicinissimo a Bertinotti, la vede così: «L’idea che il governo fosse un’articolazione complessa di più elementi, sociali, economici, internazionali nel partito non è passata. Per molti è la stanza dei bottoni come per Pietro Nenni negli anni Sessanta e il problema è se i poteri veri ti lasciano premere quelli giusti o no». E il governo istituzionale, e la riforma elettorale? Non si sa nemmeno se siano davvero all’ordine del giorno, e con chi, ma dentro Rifondazione questo è già il punto dolente della svolta (possibile). Dice Gianni: «È un tabù che viene da lontano e che suona più o meno così: in un governo che isola la politica dalla questione sociale, una forza di classe non può starci. Anche perché un governo neutro non esiste, e quindi, per dirla con Marx, un governo neutro è in realtà la cabina di comando dei poteri forti».
Fausto invece è da un anno che già pensa al post Prodi: dopo il vertice di Caserta il «Prodinotti» si è rotto, ma il suo partito non l’ha seguito rimanendo nella logica dell’Unione. Lo schema bertinottiano era invece andare oltre l’Unione: sul piano istituzionale, superando un bipolarismo che considera coatto e, sul piano politico, lavorando per andare oltre Rifondazione, e costruire un contenitore adeguato per rappresentare quella sinistra diffusa che, almeno in potenza, la nascita del Pd ha messo in libertà. In queste ore il gioco di sponda con Massimo D’Alema per varare una legge di tipo tedesco prosegue. Ma neanche questa Cosa rossa, almeno per come si presenta, gli piace: lenta, macchinosa, politicista. Lo schema bertinottiano prevede una forzatura dal ponte di comando. Per farla, Fausto deve convincere i suoi.