Oppio per oppio

Nelle valli di Jalalabad e Kandahar questo è tempo di semina. A inizio ottobre i contadini afghani spaccano la terra per prepararla ad accogliere i semi, poi aspettano la luna propizia per spargerli e farli crescere forti e sani. In aprile sarà tempo di raccolto. Cosa raccoglieranno il prossimo anno, se papavero da oppio o grano, o niente, non si sa. Perché la guerra ha rimescolato tutte le carte. E così se nel luglio scorso Bernard Frahi, responsabile per l’Afghanistan dell’Undcp, l’organismo Onu contro la droga e Abdul Hamid Akhundzada, responsabile talebano per il controllo della droga, avevano dichiarato l’Afghanistan di Mullah Mohammed Omar una nazione “poppy free”, senza più coltivazioni di papavero, ora è tutto da rivedere.
La guerra costa e l’oppio rende molto più del grano. Lo sanno bene i contadini che ho incontrato – ho lasciato l’Afghanistan nello scorso agosto. Lo sa bene l’Alleanza del Nord che non ha mai smesso la produzione sul suo territorio. Lo sa bene anche il Mullah Omar, che ha bisogno di soldi per armi e munizioni: non esiste al mondo una moneta migliore della droga per comprare armi e proiettili. E poco importa se nella fatwa del 27 luglio 2000 aveva dato avvio alla sua guerra contro alla droga. In fondo anche oppio ed eroina possono essere un buon sistema per punire l’Occidente. Basta solo avere pazienza perché per crescere il papavero ha bisogno di tempo e di cure. Quando ad aprile si andrà nei campi per estrarre l’oppio, forse il regime di Kabul sarà già caduto. Ma i guadagni resteranno per chi possiede la terra. Ma chi possiede ora i campi su cui crescere il papavero?
Melaek Abdullah Kudus è vecchio ma ostinato. Da oltre vent’anni è il capo villaggio di Sultan Pur, a pochi chilometri da Jalalabad. Da una vita lavora nei campi. Si era sentito molto fortunato quando, nel 1997 una banca della capitale gli aveva concesso un mutuo per l’acquisto di un appezzamento di terra. Un mutuo impegnativo, ma sopportabile. “Riuscivo a mettere da parte un po’ d’oppio come risparmio di famiglia”, ci raccontava Melaek l’estate scorsa. “Lo sotterravo in un posto segreto e lo vendevo solo in caso d’emergenza. L’aprile dello scorso anno sono arrivati i trattori da Kabul e hanno sradicato tutti i fiori. Ci hanno detto di seminare grano perché è questo che Allah vuole: pane e farina per riempire le pance della gente. E noi abbiamo obbedito. Ma il grano vale molto meno dell’oppio che vendevamo a 4.000 rupie pakistane al chilo (circa 140.000 lire, ndr). Ci si è messa poi anche la siccità e così ora non abbiamo più soldi per pagare il mutuo. Molti hanno venduto i campi. Terre ormai senza valore comprate a caro prezzo per produrre oppio. La comunità internazionale ci ha abbandonato. Ci avevano detto che se contribuivamo alla lotta alla droga ci avrebbero dato semi, trattori, pompe per scavare pozzi e far scorrere l’acqua nei canali anche in periodi di siccità. Non ci è arrivato niente. Il 15% dei contadini si sono arresi e se ne sono andati. Per le strade qui intorno si vedono da mesi girare jeep da 80.000 dollari. Si fermano davanti alle case dei piccoli proprietari come me e fanno la loro offerta, quattro soldi neanche sufficienti a recuperare la somma investita. Chi sono i compratori? Provate un po’ ad immaginarlo”.
Non ci vuole molta fantasia. Chi può avere soldi in un Afghanistan in piena crisi economica? I talebani e i trafficanti. Di droga, di armi o di opere d’arte trafugate. Così il cerchio si chiude e la povera gente si ritrova con un pugno di mosche e con un futuro da servi della gleba nei campi per i quali ha versato i risparmi di una vita e tanto sudore.
“Il nonno non ha voluto andarsene”, dice Mokhtar, ventidue anni, nipote di Melaek. “Ma io non ce l’ho fatta, soprattutto adesso con la guerra. Ho un bambino piccolo. Ho venduto la mia terra ed ho raggiunto la famiglia di mia moglie a Peshawar, sono al sicuro. Come ho passato la frontiera? Non c’è problema, basta pagare. Prima mia moglie era insegnante, poi con le leggi imposte dai talebani ha dovuto abbandonare il lavoro. Fino allo scorso anno le era però concesso stare nei campi, a tagliare il bulbo del papavero per estrarre l’oppio. I talebani lo sanno, senza le donne a dare una mano non si può curare un campo. In quest’ultimo anno la vita è stata molto dura per mia moglie. Senza la coltivazione di papavero era costretta a stare a casa. Molte donne si sono date fuoco per la depressione e per protestare contro la legge. Che dovevo fare? Aspettare una bomba dal cielo o il gelo dell’inverno senza legna per il camino, o la fame? Mi sono rimaste solo cipolle e patate. Allah benedica l’oppio che avevo messo da parte e che mi ha permesso di mettere in salvo la mia famiglia”.
La strada che da Jalalabad conduce in Pakistan attraverso il mitico Khyber pass è una delle poche asfaltate e in buone condizioni del Paese. In quella striscia di terra che corre lungo i confini e che per il Pakistan è area di autonomia tribale, a maggioranza pashtun, c’è una specie di fortino super tecnologico. Da pochi mesi è stato confiscato dal governo, ma prima apparteneva a Ayub Afridi, leader della Khyber Agency che controllava il traffico di droga dell’area. Ayub ha passato un certo periodo nelle prigioni pakistane e in quelle americane. Ma le sue molte aderenze con il mondo politico lo hanno tirato fuori da entrambe le galere, con cavilli giuridici e pressioni sui magistrati. Un altro del clan afridi se la passa brutta. In questo Pakistan che tutto d’un tratto diventa l’alleato più devoto per l’Occidente, Rehmat Shah Afridi, ricchissimo direttore e proprietario del Frontier Post, uno dei quotidiani più venduti della North West Frontier Province, è stato arrestato e condannato a morte per traffico di droga. Lui, nel più classico cliché mafioso, ha detto che si rivolgerà alla Corte Suprema perché “vittima di un complotto” degli avversari. E’ probabile che qualche collaboratore con velleità di far carriera e salire ai vertici della cupola mafiosa lo abbia tradito. Perché tra le tante guerre in corso nel martoriato territorio afghano e negli uffici pakistani vi è anche quella per il potere.

* redazione
di “Narcomafie”