L’ultima rivelazione sul livello del salario italiano viene da quel “covo di comunisti” dell’Eurostat. L’istituto europeo di statistica è infatti “colpevole” di aver rilevato che il costo del lavoro in Italia, nel terzo e quarto trimestre 2000, è stato il più basso d’Europa. E’ cresciuto dell’1%; nulla, rispetto alla media euro-15, che è del 3,5%. Le cifre sono riportate in “termini nominali”, non depurate del fattore inflazione (quasi il 3% nell’area della rilevazione): in pratica i salari italiani sono diminuiti anche nel 2000. Dagli accordi del luglio ’93 il calo è stato costante, secondo una dinamica – ben descritta a suo tempo da Geminello Alvi in una ricerca svolta per conto del Corriere della sera – che nel corso degli ultimi 20 anni ha pesantemente ridotto il monte salari complessivo rispetto alla quota di reddito che finisce alla rendita e ai profitti.
Negli ultimi mesi del 2000, comunque, l’erosione salariale è ha mantenuto la media degli anni precedenti. Nei paesi-modello di Confindustria, la Gran Bretagna del neo-tatcheriano Blair e dell’ex-franchista Aznar, negli ultimi sei mesi i salari sono cresciuti rispettivamente del 4,6 e del 2,7% (il dato più basso d’Europa, Italia a parte). L’Irlanda dei miracoli paga i suoi lavoratori il 4% in più; le stime danno un +5% ai salari francesi, un +3,3 a quelli tedeschi e così via.
Disaggregando i dati – separando il salario netto dai costi aggiuntivi del lavoro (sicurezza sociale, contributi, ecc) – il risultato non cambia. Anzi. In Italia i lavoratori hanno trovato in busta paga il 2,1% in più; ma hanno anche perso l’1,9% in termini di “salario differito”, oneri contributivi, ecc. “Merito” delle riduzioni dei contributi alla sicurezza sociale introdotte nel ’99 dal governo D’Alema. Ma anche in termini di salario netto tutti – e sottolineiamo tutti – i paesi europei fanno meglio dell’Italia. La crescita media europea è qui del 4%, con punte del 6,1 (Francia), 4,1 (Finlandia), 4,2 (Irlanda). Da notare che in nessun paese europeo si è registrata una diminuzione assoluta degli “altri” costi del lavoro. Persino nella “mitica” Spagna la crescita del salario netto (+2,7%) si è coniugata con quella dei contributi (+2,6%).
La forbice descritta dai numeri può sembrare confusa, ma è a suo modo chiarissima. Il salario italiano segue una dinamica opposta a quella europea. Cala in termini di “salario netto reale” (perché la crescita nominale è inferiore all’andamento dell’inflazione), e diminuisce in termini assoluti sul fronte della sicurezza sociale (previdenza). Un calo che viene registrato dal ’98, legato all’introduzione dell’Irap, e che diminuisce il gettito sul fronte previdenziale per gli anni a venire. Ma, secondo il ministro dell’industria Letta, “Dobbiamo andare avanti in questa direzione”. Più critico nei confronti di Confindustria il ministro del lavoro, Cesare Salvi, che preferisce ricordare come i dati Eurostat facciano giustizia “delle tesi secondo cui il costo del lavoro in Italia è troppo alto”.
Sulle responsabilità politiche di questo andamento si è fatta sentire la Cgil, con Giampaolo Patta: “Ha avuto torto il governo a non adeguare a quello reale il tasso di inflazione programmata; hanno avuto torto gli industriali a non rinnovare i contratti scaduti”. Meno salari significa infatti anche minori consumi, ergo minore crescita del mercato nazionale e – di conseguenza – del mercato comunitario. Ma Patta individua anche una novità macroeconomica introdotta dai vincoli dell’euro: “Gli industriali italiani, non potendo più ricorre alle svalutazioni della lira per accrescere la competitività stanno ‘svalutando’ e retribuzioni dei lavoratori”. La conclusione logica di queste due constatazioni è semplice: “Emerge un crisi profonda dell’impianto contrattuale sancito nel luglio ’93”. Su questa conclusione si poteva scommettere già allora, visto che la classe industriale italiana da sempre gioca su un’unica tattica: sacrifici oggi (dei lavoratori), benefici domani (forse). Otto anni dopo il tempo dei benefici non è mai arrivato. E la crisi è di nuovo all’orizzonte.