I discorsi sul metodo sono fondamentali, purché non uccidano i contenuti. Le riflessioni di Asor Rosa e di Bertinotti sulle coordinate della cosiddetta sinistra alternativa aiutano a definire i contorni del dibattito sulle forme dell’azione politica prossima ventura, ma rischiano di mettere in secondo piano – rinviandole magari a una fase successiva della discussione – le questioni di merito. E’ necessario invece che le analisi sulle modalità e sui contenuti dell’alternativa di sinistra procedano sempre di pari passo. La discussione sui contenuti tra l’altro è urgente, visti i segnali di rilancio dello slogan «concertazione a tutti i costi» e il ritorno in auge delle interpretazioni restrittive del trattato di Maastricht. Segnali poco incoraggianti, nei quali molti intravedono il rischio che nelle trattative per la costruzione di un’alleanza di governo, le istanze della sinistra alternativa vengano ingabbiate nei vecchi schemi di compatibilità ai quali negli anni `90 i governi dell’Ulivo subordinarono la propria azione e che palesemente contribuirono a decretarne la sconfitta elettorale. In una fase così delicata, nella quale si potrebbe cedere alle consolazioni e agli opportunismi offerti dalle ambiguità del linguaggio politico, è bene chiarire cosa valga la pena di intendere per «compatibilità» e per «alternativa». Abbiamo più volte affermato, in proposito, che nell’attuale fase storica l’unico modo credibile per dare un senso all’espressione «alternativa di sinistra» consiste nel promuovere un realistico ma anche sistematico appoggio a tutti i tentativi di violazione delle compatibilità imposte dall’attuale governo capitalistico delle risorse monetarie e finanziarie, un governo che dietro le false ossessioni contro il disavanzo pubblico e l’inflazione nasconde la ferma volontà di prosciugare i flussi di moneta destinati alla spesa pubblica e ai salari. Mirare al superamento dei vincoli finanziari posti dalla restaurazione capitalistica significa porsi l’obiettivo di una nuova «socializzazione della moneta», implicito preludio per esperimenti aggiornati di socializzazione dei mezzi di produzione (della ricchezza e del potere). Il tema come è noto appare a molti scomodo, sia perché – seppure in forma inedita – ripropone il problema della «presa del potere», sia perché costringe a delineare una nuova identità per la sinistra all’interno di un chiaro disegno di rottura, ovvero nel caos prima dell’ordine. Una simile opzione strategica non pecca di ardimento. Essa tuttavia aderisce perfettamente ai nostri tempi e soprattutto pare ben più ragionevole della moda imperante di assistere inermi al depauperamento in corso del welfare e delle retribuzioni. Inoltre, accettando tale opzione, si rende un tributo proprio alla tanto invocata logica, poiché diventa possibile attribuire un preciso significato alla diade alternativa/compatibilità. Un indirizzo di politica economica potrà infatti realmente definirsi alternativo se la spinta sulla spesa pubblica sarà tale da far tendere il bilancio verso il pareggio primario (vale a dire verso l’uguaglianza tra la spesa al netto degli interessi e le entrate fiscali), e se le pressioni sui salari saranno tali non solo da oltrepassare la dinamica dell’inflazione, ma anche da conquistare quote sempre più ampie di produttività. Viceversa, l’eventuale ancoraggio della spesa sociale e delle retribuzioni ai funesti obiettivi dell’avanzo primario e del mero recupero ritardato dell’inflazione indicheranno con estrema chiarezza, e senza possibilità di appello, la totale subordinazione dei programmi di governo alle compatibilità imposte dalla restaurazione capitalistica in corso. Ovviamente tale definizione rappresenta solo un punto di riferimento, un benchmark fondato su due estremi.
Gli amanti del moderatismo dovranno tuttavia mettersi bene in testa che l’estremo definito «alternativo» non può certo considerarsi estremista – nel senso di Lenin – dal momento che esso consentirebbe solo di attenuare, e non di ribaltare, l’ascesa tendenziale del saggio di profitto e le relative, enormi sperequazioni di questi anni (il ribaltamento avviene solo se l’aumento della spesa porta al disavanzo primario e se l’incremento salariale supera la produttività, il che la dice lunga sui passi che dobbiamo ancora compiere per colmare l’enorme divario esistente tra le parole e i fatti). D’altro canto, la medesima definizione aiuta a delineare una precisa identità per l’alternativa dell’oggi, poiché chiarisce che attualmente esistono due modi opposti, uno di sinistra e l’altro di destra, di ribellarsi ai vincoli di Maastricht. Essa infatti si distingue rispetto all’attuale ben diversa volontà neo-conservatrice di operare sui flussi dei disavanzi pubblici con disinvoltura ma in via solo temporanea, lungo un sentiero che in realtà punta all’implosione dello stock del bilancio pubblico, vale a dire allo smantellamento del welfare e alla compressione salariale (a questo già ci hanno pensato Tremonti in Italia e Schroeder in Germania). L’identità risulta infine ancor più rafforzata se si considera che tutte le istanze e i progetti delle diverse anime della sinistra (collettiviste, operaiste, anarchiche o ambientaliste che siano) avranno qualche chance di confrontarsi – e soprattutto di misurarsi concretamente con la realtà – soltanto se le spinte dal basso sui salari e sulla spesa pubblica renderanno insostenibili i vincoli di compatibilità dell’attuale palinsesto macroeconomico. Solo una crisi delle istituzioni economiche vigenti, insomma, potrebbe dare senso e respiro concreto all’alternativa di sinistra. Chiunque si dichiari «alternativo» – o addirittura comunista – e si mostri al tempo stesso riluttante di fronte a una simile prospettiva, entrerebbe in una palese contraddizione, che nemmeno il più sofisticato armamentario retorico sarebbe in grado di superare.
Se tutto questo è vero, bene ha fatto Bertinotti a evocare il rischio di una deriva politicista nella discussione, e soprattutto bene ha fatto a stigmatizzare un richiamo al maggioritario che sembra non cogliere i nessi – ahinoi, ampiamente sperimentati – tra l’evoluzione recente dei sistemi politico-istituzionali e la distruzione dei margini di contrattazione e partecipazione democratica attorno alle variabili cruciali del bilancio pubblico, delle retribuzioni e della disciplina dei rapporti di lavoro. C’è tuttavia nell’intervento di Bertinotti un ottimismo che non convince attorno a una realtà, quella di movimento, che in molti suoi settori, per l’assenza ormai preoccupante di una chiara bussola ideologica, rischia ogni giorno di cedere alle peggiori tentazioni del «compatibilismo» capitalistico. Il movimento avrà insomma un concreto ruolo storico se saprà riconoscersi nell’obiettivo di oltrepassare la «zona rossa» dei vincoli di Maastricht ai salari e alla spesa pubblica. Altrimenti resterà una mera espressione della già confusa geografia politica della sinistra di alternativa.
*Università del Sannio