Il libro di Marco Revelli ” Oltre il Novecento ” è estremamente impegnativo. Revelli interroga l’ampia zona, oscura e drammatica, del movimento operaio di sinistra, quella del socialismo reale. E lo fa da sinistra, per contribuire a delineare la fuoriuscita dalle contraddizioni laceranti della storia del comunismo del Novecento. Revelli non si contenta di delineare il funzionamento del sistema si interroga sul destino del militante comunista, quel «Giano bifronte», quel particolare tipo umano «forgiato in un tempo di alternative mortali», esempio «inquietante dell’intreccio di positività e negatività». Qual è il punto oscuro che tocca Revelli? E’ la questione, che attanaglia da decenni militanti e gli stessi studiosi, del perché ideali e movimenti nati per liberare il mondo, si siano trasformati in macchine oppressive. Revelli esprime giudizi, da condividere, sul socialismo reale, in quanto è stato una «guerra agli operai», una «guerra alla società», caratterizzato da un «produttivismo industrialista», dalla generalizzazione del sistema di fabbrica come luogo del lavoro totale, dal taylorismo esaltato come metodo di razionalizzazione scientifica del lavoro. Questi sono i tratti caratteristici del socialismo reale, forgiato da Stalin.
Un saggio di filosofia della storia Riesce Revelli, però, a fornirci una ricostruzione sia pure “ideale” della storia del comunismo? Riesce a fornirci le chiavi esplicative di quel capovolgimento, oltre alla sua denuncia? Non pretendo di ritrovare in Oltre il Novecento la storia degli avvenimenti, ma almeno gli strumenti categoriali per interpretarla. Su questo sento che il lavoro di ricerca di Revelli è debole e carente. Mi ha colpito via via che leggevo il libro l’uso abbondante di un “vezzo” grammaticale, che non è solo grammaticale. Mi riferisco all’uso delle maiuscole per trasformare dei nomi comuni in nomi propri in modo dare sostanza ad astrazioni; mi ha stupito questa “transustanziazione” delle categorie, delle idee, come se queste fossero le protagoniste della storia, e non le persone che di esse si sono fatte interpreti. Insomma, ho trovato Oltre il Novecento un esercizio di filosofia della storia, che comunque la si voglia declinare è al fondo sempre di stampo idealistico, una versione laica della storia religiosa dell’uomo. In Revelli troviamo oltre che la categoria dell’homo faber, come attore protagonista, l’Operaio Totale, il Partito, la Violenza, la Storia, la Fabbrica, l’Ordine, la Società, il Lavoro, il Volontario, tutte parole comuni rigorosamente scritte con la maiuscola a designare dei soggetti agenti, gli attori del dramma storico. Insieme a essi, troviamo poi la «potenza dell’oggetto», il «dominio dell’oggettività», il «sistema delle cose» che non ripropongono la categoria del «feticismo delle merci» a designare il dominio del capitale sulle relazioni umane, a descrivere il denaro come nesso sociale, cioè una cosa che mette in relazione persone nella loro forma ridotta di homines oeconomici; no, in Revelli c’è la riproposizione di Heiddeger e della sua critica mistico-religiosa della modernità. L’astrattezza dell’approccio di Revelli si esprime ancor più nella separatezza che istituisce tra storia reale e storia filosofica, come in Hegel che tramite l’idealismo assoluto «costruisce una storia apriori». Hegel non si lascia sedurre dagli storici di professione, perché la «verità non giace alla superficie sensibile», a lui interessano non le «cause naturali» (p. 21), ma il teatro della storia dove dominano gli «spiriti del mondo»: “Le individualità scompaiono per noi [… ]. Gli individui scompaiono innanzi a ciò ch’è universalmente sostanziale. Questo forma da sé i suoi individui [… ]. Ma gli individui non impediscono che avvenga ciò che deve avvenire” (Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, I, Firenze, 1963, pp. 4, 11, 21 e 44). Anche in Revelli la storia è una rappresentazione delle idee. Da qui il vizio schiettamente hegeliano: sono le idee – in questo caso comuniste – a produrre la storia e le sue tragedie, non gli individui, le loro organizzazioni, le loro decisioni, i loro comportamenti. Gli esseri umani non agiscono, sono agiti. Allora anche il «processo d’imputazione» delle responsabilità scompare, tutti indistintamente sono agiti dalle idee. Tutto è dominato da forze demoniache. Questo modo ideologico di leggere la storia è assolutamente legittimo, se non impedisse di cogliere davvero le tragedie che milioni di persone, nella loro singolarità, hanno patito, e di scandagliare l’infinita complessità della storia reale. Voleva Revelli dar conto della tragedia del popolo sovietico, e con esso dei militanti comunisti? Allora avrebbe potuto seguire Orlando Figes e il suo A people’s tragedy (1997). Ci avrebbe così fatto conoscere almeno una parte della storia di persone in carne e ossa, il loro dibattersi nei marosi della guerra, e fatto ascoltare le «voci degli individui». Lo sforzo di Figes è di presentare la rivoluzione non come «marcia di forze sociali astratte e di ideologie ma come evento di complicate tragedie individuali. Fu una storia di un popolo partito con alti ideali per realizzare una cosa, per scoprire solamente dopo che il risultato era alquanto differente» (Figes, p. XIX). Figes da storico non può sottacere che avvenne un rivolgimento dell’ordine sociale fino alla messa in discussione dei codici sessuali (p. 319); che la rivoluzione non fu figlia della guerra – come a più riprese sostiene Revelli – ma che avvenne contro la guerra secondo il famoso slogan “pace e terra”; che nel 1914, il 4 agosto, avvenne una spaccatura nella socialdemocrazia sui crediti di guerra; che nel settembre del 1915 a Zimmerwald anche i gruppi non boscevichi si mobilitarono contro la guerra; che la violenza, specialmente quella del febbraio 1917, fu spontanea (p. 322). Figes sottolinea, poi, che per i protagonisti, operai innanzitutto, i soviet erano una forma di nuova democrazia, e che al controllo operaio si affiancò un movimento per l’autogoverno dei villaggi (pp. 460-63), e che, complessivamente, nel 1917 vi fu un’esplosione antiautoritaria con la nascita di una moltitudine di poteri locali (pp. 358-59). Dunque idee, ideali, fatti, comportamenti di milioni di persone di cui Figes dà conto, e la sua descrizione è tanto più significativa perché in pari tempo coglie le radici, o perlomeno alcune radici della «tragedia di popolo» e dei processi involutivi. Una prima radice è nel fatto che il gruppo dirigente leninista non fosse permeato da una cultura costituzionale soviettista (p. 465), che lo portò a esaltare il ruolo del partito a scapito delle istituzioni, ciò a causa di un’ossessione del potere (come la definì Orwell). Un secondo elemento fu il “comunismo di guerra” e la militarizzazione della società, in particolare il fatto che il comunismo di guerra non fu solo una risposta alla guerra civile, fu un mezzo di guerra civile (p. 613). E il comunismo di guerra fu l’inizio del dominio sul lavoro (p. 623). Come si vede da questi accenni, a questi giudizi, compreso quello drastico sul prometeismo – non a caso viene ricordata la frase di Lenin: «l’uomo può essere corretto. Si può fare di lui ciò che noi vogliamo che esso sia» (p. 733) -, Figes arriva sulla base di una descrizione di eventi singoli e collettivi capace di cogliere la complessità storica, di individuare motivazioni soggettive e interazioni collettive, drammi e speranze. C’è una necessità, un fatalismo nel racconto di Revelli, che non dà conto delle altre possibilità presenti nella storia, anche passata: “si è fatto così, ma poteva farsi diversamente”.
Letteratura e filosofia morale
Questa caratteristica riduttiva, semplificatrice, risulta ancor più evidente nell’uso che Revelli fa della letteratura, che è strumento di scandaglio dell’esistenza, laddove lo storico di professione non si sofferma a esaminare le motivazioni e l’esperienza del singolo essere umano. C’è una corrente di filosofia morale che usa i testi letterari per poi compiere delle generalizzazioni. Si prenda Martha Nussbaum e le sue analisi di James, Beckett, Proust (mi riferisco in particolare a Love’s knowledge, 1992): in lei letteratura e filosofia tendono a fondersi per far emergere i processi di deliberazione pratica, con i loro elementi complessi, allusivi, ambigui, particolari; esalta per questo il ruolo cognitivo delle emozioni. Dunque, che Revelli voglia far emergere il dramma del “militante” con riferimenti a opere narrative è di grande interesse. Che divengono però i personaggi letterari, così ricchi di emozioni, sentimenti, motivazioni, vicende irripetibili, nelle mani di Revelli? Esemplificazioni di un unico tipo, standardizzato, senza nerbo e spessore umani. Orwell, Koestler, Salamov, Céline raccontano tutti la stessa storia dell’uomo ridotto a cosa, di un’umanità degradata a macchina, del militante trasformato in gelido funzionario. La complessità della tragedia umana delle miriadi di persone svanisce, perché ad agire è sempre lo stesso demone, di cui sappiamo fin dall’Introduzione: l’homo faber. Eppure basterebbe rileggere qualche passaggio di Koestler – per esempio p. 288 de La scrittura invisibile (Bologna 1991) – per rendersi conto dell’intimo, personale travaglio vissuto da Koestler nella sua metamorfosi da persona a “quadro”. Basterebbe rileggere Salamov, il suo Come incominciò (in I racconti di Kolyma, Torino, 1998, pp. 465-76), per essere consapevoli di come la tragedia concentrazionaria sia stata vissuta, nella propria irripetibile singolarità, da centinaia di migliaia di persone sottoposte allo stesso meccanismo di deumanizzazione approntato da altre persone che consapevolmente, non agite da potenze superiori, avevano programmato un processo di annientamento. Questa dolente ricchezza umana sparisce nelle astrazioni fantasmatiche delle pagine di Revelli. Possiamo nominare diversamente lo stesso male annidato nell’homo faber, dicendo con Revelli che l’artificialismo è il male del secolo passato. E’ sicuro Revelli che prometeismo e artificialismo coincidano? L’ecologismo, per esempio, sostiene che l’uomo prometeico con la sua illusione di forza illimitata e di onnipotenza sia un’ideologia che esprime la “creatività distruttrice” dell’imprenditore capitalistico, credendo questi di poter manipolare e riprodurre la natura per vie tecnologiche. Il prometeismo coincide con l’artificialismo? Non utilizzerò argomenti ad hominem, ricordando che almeno da De Maistre il pensiero conservatore ha polemizzato contro il costruttivismo e l’artificialismo razionalistici. Mi chiedo però se chi ha l’ambizione di trasformare la società – ma penso chiunque si proponga di agire – possa abbandonare una concezione artificialista, secondo cui è possibile che, provando e riprovando, per tentativi ed errori, gli esseri umani possano umanizzare le relazioni tra le persone, e farsi carico degli esseri viventi e della natura. L’artificialismo, domando a Revelli, non è forse l’altro nome della politica, specificamente la politica delle classi subalterne che vogliono cambiare l’ordine delle cose presenti? Abbandonare l’artificialismo non significa dismettere la ragione, come costruzione storica dell’umanità?