Oltre il mito dell’11 Settembre, dieci anni dopo

Sul decimo anniversario dell’11 Settembre molto si è scritto in questi giorni ed i grandi quotidiani, spesso, traboccano di retorica ma scarseggiano in analisi critiche. Per parte nostra siamo interessati ad alcune brevi considerazioni che travalicano l’anniversario e, magari, sfatano qualche mito.

1. L’11 settembre non segna l’inizio di una nuova era, men che meno lo spartiacque della civiltà moderna. «L’apertura della breccia del Muro di Berlino, il 9 Novembre 1989, e l’ammainabandiera sul pennone più alto del Cremlino (…) sono eventi di superiore portata pratica e simbolica, assai più decisivi dell’attacco alle Torri Gemelle. Solo su questo sfondo possiamo intendere il senso profondo dell’11 settembre e della war on terror che ne è scaturita» [America vs America, Lucio Caracciolo, Introduzione p. XVIII ]. Assai esplicitamente Caracciolo individua non nell’attacco alle Torri Gemelle, ma nei capovolgimenti geopolitici post ’89, il cuore delle scelte americane che porteranno alla “guerra preventiva ed infinita” di Bush, in nome della lotta al terrorismo. Non di risposta si è trattato quindi, ma di scelte pianificate. Non possiamo che concordare: se proprio dobbiamo cercare uno spartiacque nella storia moderna, questo andrebbe rintracciato in quella che l’attuale Premier russo ha definito «la più grande catastrofe geopolitica del ventesimo secolo».

2. Sulla dinamica degli attentati alle Torri, c’è ancora molto da chiarire e, presumibilmente, non si arriverà mai ad una versione da tutti accettata. E questo discorso vale, ancora di più, per l’attacco al Pentagono di cui, a distanza di 10 anni, non si è ancora fornita una sola immagine che mostri l’impatto di un aereo sull’edificio: sono foto di fumo e macerie, null’altro. Per quanto riguarda i dubbi sulla versione fornita dalle commissione governativa guidata da Condoleeza Rice esiste una letteratura vastissima. Noi vi segnaliamo questo recente articolo di Giulietto Chiesa (CLICCA QUI) che ricostruisce le incongruenze dell’intera vicenda.
Ma è interessante però volgere l’attenzione anche su altro. Innanzitutto sul fatto che pare davvero incredibile che le autorità statunitensi non fossero allertate per un probabile rischio attentato. L’attacco dell’11/09 è solo l’ultimo di una fitta catena di attentati che colpivano gli Usa già da otto anni. La sequenza è impressionante: attentato alle torri gemelle con un camion (1993), progetto di dirottamento ed esplosione di una dozzina di aerei Usa (secondo il rapporto della polizia di Manila, 1995), attacchi alle sedi diplomatiche in Kenia e Tanzania (1998), attacco all’incrociatore Uss Cole al largo di Aden con barca esplosiva (2000). In più, un dispaccio dei servizi, solo pochi mesi prima, aveva messo in guardia rispetto ad una minaccia «veramente molto molto molto grande» [cfr. The National Commission on Terrorist Attacks Upon the Usa]. Altrettanto incredibile è un altro aspetto. «La mattina degli attacchi a Torri Gemelle e Pentagono l’amministrazione Bush dimostra di non sapere nulla della minaccia che sta per abbattersi sulla nazione. La sera sa già tutto. (…) Chi è stato, per quale ragioni e con quali obiettivi. Sa soprattutto come reagire». [Caracciolo, opera cit. p.65-66].
Non c’è da stupirsi. Al di là di ricostruzioni indipendenti e tesi dietrologiche, sono le parole del Presidente nel bunker della Casa Bianca alle 21,30 dell’11 Settembre a dare la lettura di cosa rappresentino per lui questi attentati: «questa è una grande opportunità» [Bush at War, B. Woodwar, p. 32]. L’opportunità, infatti, di riconfermare, manu militari, la supremazia globale degli Usa.

3. In questi dieci anni gli Stati Uniti hanno raffigurato la loro lotta come uno scontro tra il Bene (da loro incarnato) contro il Male, rappresentato da Al’Qaeda. In nome di questa battaglia, si sono giustificate le occupazioni militari di Afghanistan ed Iraq. Due guerre che, a dieci anni di distanza, possiamo dire senza il rischio di essere smentiti che gli Usa hanno sonoramente perso. Al’Qaeda è stata raffigurata come fosse un’organizzazione rigidissima, composta di affiliati, ideologi e migliaia di miliziani (in armi o dormienti), pronti ad immolarsi per la causa, guidati dall’indiscusso capo Osama di Bin Laden. Come se, ci sia consentito dire, questa organizzazione fosse retta da un rigidissimo “centralismo democratico” in salsa jihadista. È sempre più evidente che le cose non stanno affatto così. Il nome Al’Qaeda è stato affibbiato dagli stessi Usa al “centro per il coordinamento dei servizi” per i mujahidin fondato da Sheikh Azzam e gestito poi da Ayman Al’Zarwairi. Il campo base (“la base”, in arabo, si dice Al’Qaeda) per l’addestramento dei combattenti in Afghanistan (contro i sovietici) era fortemente appoggiato e foraggiato da americani, pakistani e sauditi. Di tutta questa struttura, Bin Laden ne è stato il manager, non l’ispiratore o il capo. Terminata la campagna afghana, con la ritirata sovietica, i miliziani si trasferiscono in Africa e lì, prima in Somalia e poi in Sudan, combattono contro gli Usa e si legano, grazie ai rapporti loro forniti da Hassan Al Turabi (noto giurista laureato alla Sorbona) ai gruppi jihadisti africani ed asiatici. Ma l’alleanza con gli Usa ritornerà in auge nel 1993 con l’esperienza della Bosnia.
In questo brevissimo excursus capiamo due cose importanti. Primo: Al’Qaeda è un “brand”, usato da vari gruppi di fondamentalisti islamici sui quali gli Usa si appoggiano o si scontrano a seconda dei casi e delle convenienze. Lo stesso Bin Laden ha avuto rapporti molto stretti con l’Amministrazione statunitense, durante la guerra contro i sovietici, diventando poi un ricercato pubblico dopo gli attentati africani. La seconda cosa è che, dopo l’11 Settembre, Al’Qaeda ha assunto al ruolo di “nemico mortale” degli Usa, da sconfiggere ad ogni costo: quello che un tempo era l’Urss. Dopo il Nemico comunista, gli Usa costruiscono il Nemico islamico: Al’Qaeda come un altro Comintern (non è una battuta, ma la teorizzazione dei neocons).

4. Che rapporti ci sono ora tra gli Usa ed Al’Qaeda?
È una domanda a cui è difficile dare una risposta, senza prima definire cosa davvero sia Al’Qaeda e le connessioni con gli Usa. Ma una cosa appare chiara. Dopo aver assurto l’organizzazione islamica al ruolo di “nemico mortale”, oggi gli Usa sembrano voler far dimenticare questo assioma all’opinione pubblica. Basta guardare al tono delle celebrazioni nel decennale o scorgere i titoli di qualche quotidiano, anche italiano per rendersene conto (“L’immenso fallimento della strategia di Al’Qaeda”, l’Unità del 30/08/2011; “Le rivoluzioni arabe del 2011 stanno sottraendo terreno al terrorismo”, La Stampa del 6/09/2011; – solo per fare qualche esempio).
In fondo non è difficile capire il perché. L’arco di guerra post 11 Settembre degli Usa, con le avventure coloniali (ma pur sempre condotte in nome della guerra al terrorismo) in Mesopotamia ed Asia Centrale, impone oggi un cambio di rotta. Ancora una volta, quelli che un tempo erano i nemici diventano oggi gli amici. In Afghanistan, come in una straordinaria legge del pendolo, gli Usa dopo aver appoggiato i talebani (contro l’Urss) e poi averli combattuti, ora cerca di comprarne alcune sue componenti (come quelli legate al Mullah Omar) per portarli al potere a Kabul e gestire così la propria exit strategy (costata la vita ad oltre mille giovani soldati). Non diversamente dagli accordi che Mc Crystal ha siglato in Iraq con alcuni gruppi sciiti grazie all’aiuto dell’Iran, che per altri versi rimane un duraturo nemico degli Usa, per giungere alle nuove “rivoluzioni arabe”, che stanno portando al potere organizzazioni islamiche che teorizzano l’antisemitismo e l’introduzione della sharia nelle nuove costituzioni dei rispettivi paesi (a partire dall’Egitto). Come del resto non è un mistero che le bande all’opera in Libia e spacciate in Occidente come forze di liberazione appartengano al Libian Islamic Fighting Group, l’organizzazione locale di Al’Qaeda. Come si può far vivere il mito del Nemico islamico di Al’Qaeda e poi conviverci a lavorarci assieme? Ecco spiegata la ragione dell’oblio che, proprio le celebrazioni di questi giorni, cerca di rafforzare.

Rimane un punto: gli Usa hanno perso la loro guerra. La “grande opportunità” di cui ha parlato Bush, si è rivelata un boomerang micidiale. Dopo la perdita di egemonia economica ora si palesa anche quella militare. Per questo l’Amministrazione americana si trova di fronte ad un bivio: accettare con amaro realismo di condividere il potere con i paesi emergenti oppure aumentare l’arco di crisi ed instabilità in giro per il mondo. È troppo presto per dire se queste “rivoluzioni arabe” corrispondono anche (ma non solo, ovviamente) a questa seconda scelta. Di sicuro è su questo dilemma che Obama si gioca la sua rielezione.