Intensificazione delle azioni di guerriglia nel resto dell’Iraq ed escalation d’attacchi contro la Zona verde. Sono questi gli effetti immediati prodotti dall’operazione «Legge e ordine» con la quale le forze armate statunitensi speravano, assieme ai militari iracheni, di mettere la sordina alla resistenza nella capitale Baghdad.
L’ultimo massacro nella notte di martedì a Tal Afar, la città del nord del Paese, al confine con la Siria, citata un anno fa dal presidente Usa Bush come esempio dei «progressi» della Mesopotamia in direzione della pace. Nel pomeriggio di martedì, due camion e un’automobile imbottiti d’esplosivo erano saltati in aria tra una moschea sciita e un mercato popolare, nel centro della città, uccidendo circa 70 persone. Di quell’attentato ieri è arrivata la rivendicazione su internet, da parte dello Stato islamico in Iraq, la filiale di al-Qaeda in Mesopotamia. La successiva rappresaglia ha avuto luogo nel quartiere sunnita di al-Wihda, dove un commando di uomini armati ha sparato all’impazzata, uccidendo, a seconda delle fonti, tra le 50 e le 70 persone.
«Miliziani sciiti hanno ammazzato gli uomini sunniti nelle loro case», ha raccontato il generale Najim al Jouburi, sindaco della città. Secondo una fonte della sicurezza irachena citata dall’agenzia Reuters, all’azione hanno partecipato molti agenti della polizia irachena, dominata dagli sciiti. Dopo l’imposizione del coprifuoco, secondo quanto riferito dalla tv governativa al Iraqia, la situazione sarebbe tornata «normale», con l’esercito a pattugliare le strade. Al premier Nouri al-Maliki non è rimasto che ordinare l’apertura di un’inchiesta. Ma sono ormai centinaia i casi in cui la «sua» polizia viene accusata di partecipare attivamente agli scontri settari che quotidianamente producono un centinaio di morti.
Dopo che migliaia di uomini – tra statunitensi e iracheni – hanno preso a pattugliare i quartieri del centro di Baghdad alla caccia di guerriglieri, la guerriglia ha risposto nelle ultime settimane intensificando le azioni fuori dalla capitale. L’ennesimo attacco con un camion bomba carico di clorina ha colpito ieri l’ufficio governativo di Falluja, ferendo una quindicina di soldati, tra statunitensi e iracheni. Nella capitale invece si assiste a una vera e propria escalation di attacchi contro la Zona verde, la super protetta città nella città del centro di Baghdad dove hanno sede ambasciate, uffici governativi e comandi militari statunitensi. L’ammiraglio Mark Fox ha ammesso che, negli ultimi tre giorni, contro la Green zone sono stati sferrati tre attacchi a colpi di mortaio, che hanno causato due morti e nove feriti. «È chiaro che c’è stato un aumento degli attacchi contro la zona internazionale», ha dichiarato ieri Fox in conferenza stampa. Insomma «Legge e ordine», la terza operazione per la sicurezza nella capitale, sta producendo gravi effetti collaterali per gli occupanti.
Tanto che gli statunitensi sarebbero sempre più irritati contro Al Maliki, e starebbero pensando sempre più seriamente a una «sostituzione» del primo ministro, accusato di non fare abbastanza contro le milizie sciite. Ma a finire sotto accusa è anche la gestione «politica» del conflitto, condotta dall’ambasciatore Usa a Baghdad Zalmay Khalilzad. Quando il 56enne di origini afghane fu nominato capo della diplomazia a stelle e strisce nella capitale irachena (era il 5 aprile 2005) il conteggio dei militari americani caduti era fermo a quota 1.324. Ieri ha toccato quota 3.243, mentre negli ultimi dodici mesi almeno 35.000 iracheni sono rimasti uccisi nel conflitto. Secondo un rapporto del Government accountability office (reperibile, in inglese sul sito www.gao.gov) finora sono stati spesi oltre 15 miliardi di dollari per addestrare l’esercito iracheno e il Pentagono ha reso noto di aver preparato ed equipaggiato 327.000 truppe locali.
Ma il rapporto dell’ente di controllo sull’operato del governo fa sapere che: «Sebbene le truppe irachene stia portando avanti sempre più operazioni di contro-guerriglia, anche assieme alle truppe della Coalizione non sono state in grado di ridurre il livello di violenza nel Paese». Il problema è che, in mancanza di un accordo politico – che Khalilzad sembra lontano dal raggiungere – le milizie continuano a lottare, solo con le armi, per la conquista di fette di potere.