Nel 1985 ci furono gli accordi del Plaza. Vent’anni dopo potrebbero esserci quelli di Pechino: martedì prossimo il segretario al Tesoro americano Henry Paulson partirà alla volta della Cina con la più importante delegazione economica nella storia dei rapporti bilaterali. «Saràla prima sessione di un dialogo strategico che affronterà questioni di lungo termine», come lui stesso ha spiegato qualche giorno fa. Cosa ci sarà sul tavolo? Certamente il rapporto dollaro-yuan, sempre più centrale per gli equilibri finanziari mondiali, ma anche per quelli politici interni in America. E tutti gli altri aspetti dei contenziosi aperti con Pechino: protezione dei diritti intellettuali, apertura dei mercati, introduzione di standard di lavoro e ambientali più avanzati; coordinamento delle politiche energetiche, soprattutto per l’introduzione di tecnologie alternative, ad esempio con la realizzazione di centrali elettriche alimentate dal carbone; politiche sanitarie adeguate alle sfide di un’economia moderna. Paulson porterà con se Susan Schwab, il capo negoziatore commerciale della Casa Bianca, responsabile per il Doha Round, il segretario al Commercio Carlos Gutierrez, il segretario al Lavoro Elaine Chao, il segretario per l’Energia Samuel Bodman, il segretario per la Sanità e i servizi umanitari Mike Levitt e Stephen Johnson, l’amministratore dell’Agenzia per l’Ambiente. E, come se non
bastasse, si è aggiunto qualche giorno fa anche il presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, che istituzionalmente non risponde all’amministrazione e avrà un ruolo di osservatore indipendente. Vi saranno incontri con il presidente Hu Jintao e il premier Wen Jiabao, mentre la delegazione cinese, controparte operativa di Paulson, sarà guidata dal vice premier Wu Ji. Basta questa dimensione di partecipazione per qualificare la portata della missione. Non solo la più importante sul piano bilaterale, ma anche la più importante nella storia dei rapporti multilaterali americani. Il corollario è chiaro: con questa missione il segretario al Tesoro diventa l’uomo chiave per il coordinamento dei dicasteri economici e si afferma come uno dei due uomini forti di questi ultimi due anni di amministrazione Bush. L’altro, sul piano della politica internazionale è Bob Gates, il nuovo segretario al Pentagono. Non che da questa missione ci si aspetti, come capitò nel 1985, un risultato operativo tale da riorganizzare seduta stante i rapporti valutari mondiali. Ma non c’è dubbio che lo spirito della missione sarà molto simile a quello con cui il segretario al Tesoro di allora, James Baker, preparò i suoi incontri: a fronte di importanti squilibri strutturali sul piano internazionale, occorre impostare un dialogo nuovo tra le potenze economiche interessate. Ecco il primo
elemento dell’equazione, dunque: il baricentro nei rapporti macroeconomici nel 1985 passava per l’Atlantico; nel 2006 passa per il Pacifico. Al posto del dialogo Stati Uniti-Europa-Giappone, si passa al dialogo Stati Uniti-Cina. Un cambiamento di dimensione, di rapporti, di problematiche, di sfide, che forse, almeno in parte, spiega l’impazienza con cui gli Stati Uniti dialogano economicamente con l’Europa. Anche a livello di banche centrali, com’è spiegato nella pagina a fronte.
Al centro dell’attenzione restano il rapporto dollaro-yuan e l’intera dinamica economica che regola il rapporto tra Cina e Stati Uniti: le stime per il 2006 dicono che l’America importa dalla Cina circa 266 miliardi di dollari in beni e servizi contro un’esportazione di 52 miliardi di dollari. Il disavanzo quindi è di circa 214 miliardi di dollari. Ma la Cina rimedia acquistando dollari e finanziando il disavanzo delle partite correnti americane. E gli Stati Uniti possono continuare a importare da Pechino senza che lo squilibrio abbia effetti esplosivi sul dollaro, sui prezzi e sui tassi di interesse in America.A parole Paulson ha ribadito di volere un dollaro forte. E la Cina certamente farà la sua parte evitando di “svendere” sul mercato, e contro il suo stesso interesse, strumenti di credito in dollari. Ma questo modello non è sostenibile nel lungo periodo e Paulson lo sa benissimo: lo dicono la scienza economica, la
politica, con molti democratici che minacciano misure protezionistiche, e la storia. Proprio nel 1985, alla fine degli incontri del Plaza a New York, i
ministri finanziari di Stati Uniti, Germania, Giappone, Francia e Gran Bretagna annunciarono un accordo secondo cui i «tassi di cambio dovrebbero giocare un ruolo nell’aggiustare gli squilibri esterni…dovrebbero riflettere meglio i fondamentali…e un ulteriore apprezzamento ordinato delle altre valute contro il dollaro è desiderabile». Si trattò di una bomba valutaria. Il dollaro precipitò. Solo nel 1987, con gli accordi del Louvre, i ministri dissero che «i nuovi rapporti riflettevano i fondamentali». Oggi lo yuan è considerato sottovalutato del 40% rispetto al dollaro, e
l’apprezzamento dal luglio 2005 a oggi è stato solo del 5,7 per cento. «Troppo poco», ha osservato il senatore democratico Charles Schumer, che minaccia tariffe del 27% sulle importazioni cinesi. «Paulson ha molta buona volontà, ma le chiacchere non sono sostitutive di un’azione da parte della Cina. Il conto alla rovescia è cominciato». I punti interrogativi sono due: i tempi e la reale disponibilità dei cinesi. Vent’anni fa i mercati industriali occidentali erano molto più integrati tra loro di quanto lo sia oggi la Cina con gli Stati Uniti o con l’Occidente in genere. Per questo la missione e’ multidisciplinare. Paulson potrebbe pensare a un aggiustamento ordinato in un paio d’anni, sulla falsariga dei tempi Plaza-Louvre. Se i cinesi ci staranno, e non c’è dubbio che di questa missione siano molto lusingati, si potrà immaginare un percorso di aggiustamento importante. Ma il Congresso vuole risposte subito. E i mercati fremono. La sfida per Paulson è chiara: dimostrare le stesse doti di equilibrista del suo predecessore di 20 anni fa. Solo in questo modo avrà scritto una nuova pagina di storia economica. E avrà evitato il rischio, sempre presente, di uno shock per il sistema finanziario globale.