Obiettivo sul pozzo in fiamme

Nella notte tra l’8 e il 9 agosto 1956 mi trovavo con la mia minitroupe in un albergo sulla spiaggia di Scheveningen, in Olanda, sul Mare del Nord. L’Olanda era una delle numerose tappe di due film-inchiesta, a me commissionati – per la Rai – da una società di produzione romana, sulla nascita dell’Unione europea. Dovevo documentare l’unione doganale tra Belgio, Olanda e Lussemburgo (Benelux) ed anche la nascita della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (Ceca). Si trattava dei primi, incerti, esempi di unioni tra popoli europei. Avevo al mio attivo già alcuni giorni di riprese, tra Rotterdam, l’Aja, le miniere e i polders olandesi (tanto cari a Joris Ivens) per il film sul «Benelux».
Dormivo placidamente quindi, quella notte tra l’8 e il 9 di agosto del 1956, con gli occhi pieni di stimoli visivi provocati dalla luce, dai colori, dai volti delle persone, sulle rive del mare del Nord. Improvvisamente, nel cuore della notte – potevano essere state le due o le tre – il telefono della mia camera d’albergo squillò con ossessiva insistenza. Dovetti barcollare per trovare l’apparecchio telefonico, che non era sistemato sul comodino, accanto al letto, ma sullo scrittoio. Dall’altro capo del filo sentii il timbro di una voce maschile un po’ roca. «Sono Franco Schepis e ti chiamo da Roma». Era il direttore del Telegiornale della Rai. I miei lavori facevano parte di una nuova rubrica del Telegiornale dal titolo «Le inchieste del Telegiornale».
Un terribile incidente
«Massimo – mi disse Schepis – è successo un terribile incidente minerario, in una miniera di carbone belga. Non so dove si trovi esattamente. Le notizie delle agenzie parlano della zona mineraria del Borinage, tra la cittadina di Mons e la città di Charleroi. Di più non so dirti. E’ una miniera di carbone dove lavorano centinaia di italiani. Raccogli tutte le immagini che puoi sugli italiani e sulle ragioni dell’incidente, che sembra essere una vera tragedia. Parti più presto possibile con la troupe. Inviaci i rulli filmati per aereo, immediatamente. E’ indispensabile inserire il tuo servizio nel telegiornale della sera, oggi. Ciao, buon lavoro».
Rimasi un bel po’ con la cornetta del telefono in mano, come stordito da una botta in testa. Telefonai subito a Ciro, il nostro bravissimo autista, pregandolo di avvisare gli altri. Partenza, al più tardi, entro due ore. Per raggiungere la zona mineraria di Borinage, nei pressi di Charleroi, bisognava prendere l’autostrada dall’Aja per Anversa – in direzione sud – e poi continuare per strade provinciali sempre verso il sud del Belgio, verso la foresta delle Ardenne. In macchina eravamo tutti storditi e senza parole. Avevamo filmato, nei primi giorni di riprese in Olanda, alcune immagini di minatori italiani nelle bellissime miniere di carbone olandesi. A profondità di centinaia di metri ci eravamo trovati a percorrere interminabili gallerie spaziose e pulitissime, come enormi tunnel di superficie. I carrelli elettrici, lenti e veloci, trasportavano uomini e materiali. I tecnici e i minatori – tra cui molti gli italiani – ci dicevano che le miniere olandesi erano le più belle, pulite e sicure del mondo, mentre quelle belghe erano le più brutte, sporche e pericolose del mondo. Avevano ragione, evidentemente, e noi ora dovevamo registrare le immagini di un dramma avvenuto proprio in una miniera belga: la miniera di Marcinelle.
Ma davanti a quale situazione ci saremmo trovati, e come avrei dovuto «io» affrontare cinematograficamente un evento per me assolutamente nuovo, imprevedibile, terrificante? Come mi potevano venire in aiuto le immagini, le sequenze di opere cinematografiche del passato ? Fu alla luce di tali interrogativi che i miei pensieri si concentrarono sui film che noi giovani cinefili ferraresi, nell’immediato dopoguerra, proiettavamo per i soci del nostro Circolo di Cultura Cinematografica, dell’associazione universitaria, nelle mattinate domenicali. E si riaffacciarono improvvisamente alla mia mente le stupende immagini del regista tedesco Georg Wilhelm Pabst nel suo film «Kameradschaft» (La tragedia della miniera) del 1931. Di Pabst avevamo mostrato, a Ferrara, numerose opere nell’ambito di un ciclo sul cinema dell’espressionismo.
Rividi quindi – nel ricordo del capolavoro di Pabst – i primi piani dei minatori, i dettagli delle trivelle all’opera, dei nastri trasportatori di carbone, e poi le immagini delle torri con le grandi ruote che azionavano gli ascensori, il terribile fumo provocato dagli incendi nelle gallerie… insomma le sequenze della tragedia mineraria, con i familiari in attesa dietro alle sbarre dei cancelli, le vittime portate in superficie sulle barrelle con i corpi coperti dai teli, le ambulanze, la visita delle autorità e così via: non riuscivo a cancellare dalla mia mente, nel ricordo del film, quei volti dei minatori, quelle trivelle in primo piano, quei nastri trasportatori, e poi la terribile tragedia… la tragedia dentro le gallerie della miniera.
Cavalletto e cinepresa
Allora, progettai che dovevo prevedere di sistemare cavalletto e cinepresa (una Arriflex 16 mm, con chassis da 120 metri di pellicola invertibile bianco e nero) subito in alcune posizioni chiave, per ottenere proprio quelle immagini che il pensiero e la memoria mi riproponevano, e anche – però – bisognava prevedere alcune indispensabili sequenze di riprese a spalla, senza cavalletto…
Ciro, l’autista, intuì di essere in prossimità della zona mineraria di Charleroi dalla visione di una gran quantità di montagnole nere, fatte a piramide, che ammucchiavano gli scarti del carbone estratto e i rifiuti di lavorazione. I cittadini del luogo, interpellati, chiamavano questa zona, cosparsa di montagnole nere, «Le pays noire» (il paese nero). Quando arrivammo sul luogo della tragedia tutte le ipotesi, affacciatesi durante l’angoscioso viaggio in macchina, si dileguarono. La realtà di quanto stava accadendo era terrificante. Nessuno può immaginare, oggi, che cosa fosse Marcinelle. Non c’era più tempo per pensare all’una o all’altra soluzione, per le riprese.
L’incendio nelle gallerie – a oltre un migliaio di metri di profondità – si era sviluppato il giorno precedente (l’8 di agosto) nella mattinata. Tutti i tentativi per domare le fiamme (le cause non erano state ancora identificate), per l’intera giornata e nella notte, avevano ottenuto risultati parziali e incompleti.
Quando noi riuscimmo a raggiungere la miniera – denominata Bois de Cazier – alle nove del mattino del giorno 9, ci venne detto che le fiamme all’interno delle gallerie sotterranee erano state domate e che però, in seguito a ciò, tutto il complesso minerario era stato invaso da un fumo intensissimo. Il fumo era una cortina impenetrabile, come la peggior nebbia della Val Padana. Questo intensissimo fumo si diffondeva a folate nell’intera zona, e oscurava la vista di quanto accadeva. Era un fumo acre e irrespirabile. La tragedia era dovunque. Bastava premere il bottone della cinepresa, con l’obiettivo puntato sui luoghi del disastro, per ottenere le immagini più impressionanti della realtà che ci circondava. Dai cancelletti degli ascensori uscivano i cadaveri delle vittime ed anche i minatori vivi che – provenienti dai vari strati sotterranei – erano riusciti a salvarsi.
Molti gli italiani, sia tra le vittime che tra i superstiti. Molti i familiari dei minatori in angosciosa attesa dietro le cancellate dello stabilimento minerario, dove si trovava il «pozzo» in fiamme. Tra i familiari numerosissimi gli italiani, provenienti in gran parte dalle regioni centrali e meridionali del nostro paese. Volevano esprimere il loro dolore urlando in italiano ai parenti delle vittime, in Italia, attraverso le immagini fissate dalla nostra cinepresa con l’audio del registratore Nagra.
I volti dei minatori che emergevano dalle centinaia di metri di profondità erano letteralmente ricoperti dal nerofumo, con gli occhi semichiusi che sbucavano a malapena dalla pelle bruciacchiata. I minatori stringevano nella mani qualche arnese e, appena usciti dagli ascensori, barcollavano riuscendo a fare soltanto qualche passo, poi crollavano a terra.
Numerose erano le troupe di inviati da tutta Europa e anche da più lontano. Giravano e giravano con le cineprese di modelli vari, grandi e piccole, e registravano effetti e interviste in presa diretta, con i registratori audio e con altre apparecchiature. Noi giravamo e giravamo, scaricavamo e ricaricavamo, registravamo e ascoltavamo. Non rispettavamo quella «economia di ripresa» che il telegiornale impone. Io ero convinto che un simile avvenimento di tragedia collettiva (con tanti connazionali implicati) andasse filmato a più non posso. In poche ore girammo oltre dieci chassis da 120 metri. Molto materiale poteva, naturalmente, presentare difetti di ripresa con sottoesposizioni o sovraesposizioni, sfuocature, immagini troppo mosse, interviste brevi incomprensibili, e chissà quali altri difetti. Tuttavia girammo, cercando di elencare minuziosamente le riprese fatte per ogni chassis e numerando meticolosamente tutte le bobine.
260 intrappolati
Almeno 260 minatori, di varie nazionalità e dei quali si diceva che 130 erano italiani, giacevano intrappolati nelle gallerie tra 975 e 1035 metri di quota. Tutti gli sforzi per farli tornare alla superficie si erano già dimostrati inutili. Le mogli, i figli, i parenti delle vittime italiane si andavano tragicamente convincendo sulla impossibilità di sopravvivenza dei loro cari. Urlavano con le mani avvinghiate ai cancelli della miniera, con gli occhi spalancati dal terrore. Urlavano i nomi dei loro mariti, dei loro padri, dei loro fratelli e insistevano nel dire – a chi li intervistava – che non accettavano di lasciare i corpi sepolti nelle gallerie della miniera. I corpi dovevano essere portati in superficie per potere effettuare i funerali nei paesi di origine, in Italia per gli italiani, e altrove per le altre nazionalità.
Nelle prime ore del pomeriggio, con il materiale girato, ci precipitammo all’aereoporto di Bruxelles, che era anche il più vicino sulla strada del ritorno a Scheveningen. Avvertii la redazione del telegiornale, a Roma, della missione compiuta e dell’invio del materiale girato, con una scaletta delle riprese effettuate – bobina per bobina – utile per accelerare il montaggio. Mi venne comunicato che per il seguito dell’avvenimento avrebbero inviato una troupe da Roma e mi ringraziarono del lavoro fatto, che permetteva nell’immediato di coprire l’avvenimento per alcune edizioni del telegiornale. Venni poi a sapere che i difficili lavori di recupero di tutte le salme, e di riparazione provvisoria delle strutture sotterranee, durarono almeno tre settimane.
Terminate le operazioni di invio – per «Fuori sacco» aereo – di tutte le bobine video e audio girate, venni assalito da una sorta di crollo. Non riuscirei, oggi, a definire che cosa mi sentii capitare addosso, improvvisamente. La testa mi girava, le gambe andavano per conto loro. Mi appoggiai a Ciro, l’ autista, che mi resse in piedi dicendomi «Dottò ! Mo’ ce pensa Roma!». In realtà ci pensò Roma a montare qualche servizietto da 2 o 3 minuti, gettando tutto il resto nel cesto dei tagli di moviola.
Quando ritornai a Roma ho chiesto di vedere i tagli del materiale girato. «I tagli del materiale?» «Si – risposi – i tagli» «Ma che, Sani, non lo sai – mi replicarono – che quello che viene buttato nel cesto non lo vede più nessuno?». Questa era la prassi in Rai. E mi venne detto anche che la Rai aveva un contratto con qualche ditta che recuperava l’argento dalla pellicola impressionata (lo strato di pellicola impressionato era di nitrato d’argento). Insomma per farla breve le dieci, e passa, bobine da 120 metri girate a Marcinelle non esistevano più: si potevano vedere, in archivio, solo due o tre «servizi» da pochi minuti. Ecco. Più disperato di così non potevo essere. Il bilancio delle vittime di Marcinelle fu il seguente: 262 morti, di cui 139 italiani.

Un giornalista inviato dalla Rai mentre era in corso il tentativo di salvare i minatori intrappolati racconta quello che vide. E quel che la Rai fece vedere agli italiani
Massimo Sani
Nella notte tra l’8 e il 9 agosto 1956 mi trovavo con la mia minitroupe in un albergo sulla spiaggia di Scheveningen, in Olanda, sul Mare del Nord. L’Olanda era una delle numerose tappe di due film-inchiesta, a me commissionati – per la Rai – da una società di produzione romana, sulla nascita dell’Unione europea. Dovevo documentare l’unione doganale tra Belgio, Olanda e Lussemburgo (Benelux) ed anche la nascita della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (Ceca). Si trattava dei primi, incerti, esempi di unioni tra popoli europei. Avevo al mio attivo già alcuni giorni di riprese, tra Rotterdam, l’Aja, le miniere e i polders olandesi (tanto cari a Joris Ivens) per il film sul «Benelux».
Dormivo placidamente quindi, quella notte tra l’8 e il 9 di agosto del 1956, con gli occhi pieni di stimoli visivi provocati dalla luce, dai colori, dai volti delle persone, sulle rive del mare del Nord. Improvvisamente, nel cuore della notte – potevano essere state le due o le tre – il telefono della mia camera d’albergo squillò con ossessiva insistenza. Dovetti barcollare per trovare l’apparecchio telefonico, che non era sistemato sul comodino, accanto al letto, ma sullo scrittoio. Dall’altro capo del filo sentii il timbro di una voce maschile un po’ roca. «Sono Franco Schepis e ti chiamo da Roma». Era il direttore del Telegiornale della Rai. I miei lavori facevano parte di una nuova rubrica del Telegiornale dal titolo «Le inchieste del Telegiornale».
Un terribile incidente
«Massimo – mi disse Schepis – è successo un terribile incidente minerario, in una miniera di carbone belga. Non so dove si trovi esattamente. Le notizie delle agenzie parlano della zona mineraria del Borinage, tra la cittadina di Mons e la città di Charleroi. Di più non so dirti. E’ una miniera di carbone dove lavorano centinaia di italiani. Raccogli tutte le immagini che puoi sugli italiani e sulle ragioni dell’incidente, che sembra essere una vera tragedia. Parti più presto possibile con la troupe. Inviaci i rulli filmati per aereo, immediatamente. E’ indispensabile inserire il tuo servizio nel telegiornale della sera, oggi. Ciao, buon lavoro».
Rimasi un bel po’ con la cornetta del telefono in mano, come stordito da una botta in testa. Telefonai subito a Ciro, il nostro bravissimo autista, pregandolo di avvisare gli altri. Partenza, al più tardi, entro due ore. Per raggiungere la zona mineraria di Borinage, nei pressi di Charleroi, bisognava prendere l’autostrada dall’Aja per Anversa – in direzione sud – e poi continuare per strade provinciali sempre verso il sud del Belgio, verso la foresta delle Ardenne. In macchina eravamo tutti storditi e senza parole. Avevamo filmato, nei primi giorni di riprese in Olanda, alcune immagini di minatori italiani nelle bellissime miniere di carbone olandesi. A profondità di centinaia di metri ci eravamo trovati a percorrere interminabili gallerie spaziose e pulitissime, come enormi tunnel di superficie. I carrelli elettrici, lenti e veloci, trasportavano uomini e materiali. I tecnici e i minatori – tra cui molti gli italiani – ci dicevano che le miniere olandesi erano le più belle, pulite e sicure del mondo, mentre quelle belghe erano le più brutte, sporche e pericolose del mondo. Avevano ragione, evidentemente, e noi ora dovevamo registrare le immagini di un dramma avvenuto proprio in una miniera belga: la miniera di Marcinelle.
Ma davanti a quale situazione ci saremmo trovati, e come avrei dovuto «io» affrontare cinematograficamente un evento per me assolutamente nuovo, imprevedibile, terrificante? Come mi potevano venire in aiuto le immagini, le sequenze di opere cinematografiche del passato ? Fu alla luce di tali interrogativi che i miei pensieri si concentrarono sui film che noi giovani cinefili ferraresi, nell’immediato dopoguerra, proiettavamo per i soci del nostro Circolo di Cultura Cinematografica, dell’associazione universitaria, nelle mattinate domenicali. E si riaffacciarono improvvisamente alla mia mente le stupende immagini del regista tedesco Georg Wilhelm Pabst nel suo film «Kameradschaft» (La tragedia della miniera) del 1931. Di Pabst avevamo mostrato, a Ferrara, numerose opere nell’ambito di un ciclo sul cinema dell’espressionismo.
Rividi quindi – nel ricordo del capolavoro di Pabst – i primi piani dei minatori, i dettagli delle trivelle all’opera, dei nastri trasportatori di carbone, e poi le immagini delle torri con le grandi ruote che azionavano gli ascensori, il terribile fumo provocato dagli incendi nelle gallerie… insomma le sequenze della tragedia mineraria, con i familiari in attesa dietro alle sbarre dei cancelli, le vittime portate in superficie sulle barrelle con i corpi coperti dai teli, le ambulanze, la visita delle autorità e così via: non riuscivo a cancellare dalla mia mente, nel ricordo del film, quei volti dei minatori, quelle trivelle in primo piano, quei nastri trasportatori, e poi la terribile tragedia… la tragedia dentro le gallerie della miniera.
Cavalletto e cinepresa
Allora, progettai che dovevo prevedere di sistemare cavalletto e cinepresa (una Arriflex 16 mm, con chassis da 120 metri di pellicola invertibile bianco e nero) subito in alcune posizioni chiave, per ottenere proprio quelle immagini che il pensiero e la memoria mi riproponevano, e anche – però – bisognava prevedere alcune indispensabili sequenze di riprese a spalla, senza cavalletto…
Ciro, l’autista, intuì di essere in prossimità della zona mineraria di Charleroi dalla visione di una gran quantità di montagnole nere, fatte a piramide, che ammucchiavano gli scarti del carbone estratto e i rifiuti di lavorazione. I cittadini del luogo, interpellati, chiamavano questa zona, cosparsa di montagnole nere, «Le pays noire» (il paese nero). Quando arrivammo sul luogo della tragedia tutte le ipotesi, affacciatesi durante l’angoscioso viaggio in macchina, si dileguarono. La realtà di quanto stava accadendo era terrificante. Nessuno può immaginare, oggi, che cosa fosse Marcinelle. Non c’era più tempo per pensare all’una o all’altra soluzione, per le riprese.
L’incendio nelle gallerie – a oltre un migliaio di metri di profondità – si era sviluppato il giorno precedente (l’8 di agosto) nella mattinata. Tutti i tentativi per domare le fiamme (le cause non erano state ancora identificate), per l’intera giornata e nella notte, avevano ottenuto risultati parziali e incompleti.
Quando noi riuscimmo a raggiungere la miniera – denominata Bois de Cazier – alle nove del mattino del giorno 9, ci venne detto che le fiamme all’interno delle gallerie sotterranee erano state domate e che però, in seguito a ciò, tutto il complesso minerario era stato invaso da un fumo intensissimo. Il fumo era una cortina impenetrabile, come la peggior nebbia della Val Padana. Questo intensissimo fumo si diffondeva a folate nell’intera zona, e oscurava la vista di quanto accadeva. Era un fumo acre e irrespirabile. La tragedia era dovunque. Bastava premere il bottone della cinepresa, con l’obiettivo puntato sui luoghi del disastro, per ottenere le immagini più impressionanti della realtà che ci circondava. Dai cancelletti degli ascensori uscivano i cadaveri delle vittime ed anche i minatori vivi che – provenienti dai vari strati sotterranei – erano riusciti a salvarsi.
Molti gli italiani, sia tra le vittime che tra i superstiti. Molti i familiari dei minatori in angosciosa attesa dietro le cancellate dello stabilimento minerario, dove si trovava il «pozzo» in fiamme. Tra i familiari numerosissimi gli italiani, provenienti in gran parte dalle regioni centrali e meridionali del nostro paese. Volevano esprimere il loro dolore urlando in italiano ai parenti delle vittime, in Italia, attraverso le immagini fissate dalla nostra cinepresa con l’audio del registratore Nagra.
I volti dei minatori che emergevano dalle centinaia di metri di profondità erano letteralmente ricoperti dal nerofumo, con gli occhi semichiusi che sbucavano a malapena dalla pelle bruciacchiata. I minatori stringevano nella mani qualche arnese e, appena usciti dagli ascensori, barcollavano riuscendo a fare soltanto qualche passo, poi crollavano a terra.
Numerose erano le troupe di inviati da tutta Europa e anche da più lontano. Giravano e giravano con le cineprese di modelli vari, grandi e piccole, e registravano effetti e interviste in presa diretta, con i registratori audio e con altre apparecchiature. Noi giravamo e giravamo, scaricavamo e ricaricavamo, registravamo e ascoltavamo. Non rispettavamo quella «economia di ripresa» che il telegiornale impone. Io ero convinto che un simile avvenimento di tragedia collettiva (con tanti connazionali implicati) andasse filmato a più non posso. In poche ore girammo oltre dieci chassis da 120 metri. Molto materiale poteva, naturalmente, presentare difetti di ripresa con sottoesposizioni o sovraesposizioni, sfuocature, immagini troppo mosse, interviste brevi incomprensibili, e chissà quali altri difetti. Tuttavia girammo, cercando di elencare minuziosamente le riprese fatte per ogni chassis e numerando meticolosamente tutte le bobine.
260 intrappolati
Almeno 260 minatori, di varie nazionalità e dei quali si diceva che 130 erano italiani, giacevano intrappolati nelle gallerie tra 975 e 1035 metri di quota. Tutti gli sforzi per farli tornare alla superficie si erano già dimostrati inutili. Le mogli, i figli, i parenti delle vittime italiane si andavano tragicamente convincendo sulla impossibilità di sopravvivenza dei loro cari. Urlavano con le mani avvinghiate ai cancelli della miniera, con gli occhi spalancati dal terrore. Urlavano i nomi dei loro mariti, dei loro padri, dei loro fratelli e insistevano nel dire – a chi li intervistava – che non accettavano di lasciare i corpi sepolti nelle gallerie della miniera. I corpi dovevano essere portati in superficie per potere effettuare i funerali nei paesi di origine, in Italia per gli italiani, e altrove per le altre nazionalità.
Nelle prime ore del pomeriggio, con il materiale girato, ci precipitammo all’aereoporto di Bruxelles, che era anche il più vicino sulla strada del ritorno a Scheveningen. Avvertii la redazione del telegiornale, a Roma, della missione compiuta e dell’invio del materiale girato, con una scaletta delle riprese effettuate – bobina per bobina – utile per accelerare il montaggio. Mi venne comunicato che per il seguito dell’avvenimento avrebbero inviato una troupe da Roma e mi ringraziarono del lavoro fatto, che permetteva nell’immediato di coprire l’avvenimento per alcune edizioni del telegiornale. Venni poi a sapere che i difficili lavori di recupero di tutte le salme, e di riparazione provvisoria delle strutture sotterranee, durarono almeno tre settimane.
Terminate le operazioni di invio – per «Fuori sacco» aereo – di tutte le bobine video e audio girate, venni assalito da una sorta di crollo. Non riuscirei, oggi, a definire che cosa mi sentii capitare addosso, improvvisamente. La testa mi girava, le gambe andavano per conto loro. Mi appoggiai a Ciro, l’ autista, che mi resse in piedi dicendomi «Dottò ! Mo’ ce pensa Roma!». In realtà ci pensò Roma a montare qualche servizietto da 2 o 3 minuti, gettando tutto il resto nel cesto dei tagli di moviola.
Quando ritornai a Roma ho chiesto di vedere i tagli del materiale girato. «I tagli del materiale?» «Si – risposi – i tagli» «Ma che, Sani, non lo sai – mi replicarono – che quello che viene buttato nel cesto non lo vede più nessuno?». Questa era la prassi in Rai. E mi venne detto anche che la Rai aveva un contratto con qualche ditta che recuperava l’argento dalla pellicola impressionata (lo strato di pellicola impressionato era di nitrato d’argento). Insomma per farla breve le dieci, e passa, bobine da 120 metri girate a Marcinelle non esistevano più: si potevano vedere, in archivio, solo due o tre «servizi» da pochi minuti. Ecco. Più disperato di così non potevo essere. Il bilancio delle vittime di Marcinelle fu il seguente: 262 morti, di cui 139 italiani.