Obama, Cuba e l’America latina che cambia

“L’America Latina è la regione delle vene aperte. Dalla sua scoperta fino ai giorni nostri tutto si è sempre tramutato in capitale europeo o, più tardi, americano e come tale si è accumulato e si accumula in lontani centri di potere. Tutto: la terra, i suoi frutti e le sue profondità ricche di minerali, gli uomini e la loro capacità di lavoro e consumo, le risorse naturali e quelle umane. Il modello di produzione e la struttura delle classi sociali sono state successivamente determinate, dall’esterno, attraverso la loro incorporazione nell’ingranaggio universale del capitalismo” .

Sono brani tratti da “Le vene aperte dell’America Latina”, di Edoardo Galeano, un saggio straordinario. Il presidente Chavez non poteva scegliere libro più appropriato da regalare a Barack Obama in occasione del vertice delle americhe svoltosi nei giorni scorsi a Trinidad e Tobago. Mi era capitato di riprenderlo fra le mani pochi giorni fa, per prepararmi ad un’iniziativa pubblica con Ignacio Ramonet, già direttore de le Monde Diplomatique, nonché profondo conoscitore del continente sub americano e sostenitore della primavera latinoamericana. E’ un libro affascinante per come è scritto ed è imprendi scibile, per chiunque voglia conoscere e capire quanto profonde sono state le ferite di secoli di colonialismo ed imperialismo che hanno nei decenni perpetrato ingiustizie e rapina di risorse in quel l’angolo di pianeta, il continente con le più grandi disuguaglianze sociali del mondo. Dove un elite piccola, grazie a sanguinarie dittature e all’appoggio incondizionato e sistematico delle varie amministrazioni nordamericane, ha depredato le sue immense ricchezze in complicità con le multinazionali del gigante del nord americano e dell’Europa., lasciando milioni di disperati nelle favelas e nella miseria.

Leggendo le pagine di quel libro, si capisce molto facilmente il perché, per tutti i paesi dell’America Latina, la Rivoluzione cubana, quella di una piccola isola dei caraibi, che dista solo 90 miglia dalle coste della florida , rappresenti ancora oggi un simbolo di dignità e di riscatto. Sono Lula, il presidente vescovo Lugo, insieme a Chavez, Correa, Morales e a tanti altri a chiedere con determinazione, dal primo momento in cui si sono insediati, che gli Stati Uniti rimuovano il blocco commerciale ed economico che dal 1962 strangola l’economia dell’isola ribelle. La rimozione dell’embargo è quindi una questione che va aldilà dei rapporti bilaterali fra Cuba e Stati Uniti. E’ una precondizione per un nuovo inizio con tutta l’America latina. Perché rimuovere l’embargo significa porre fine alla disastrosa ed immorale dottrina di politica estera per la quale l’America Latina era il giardino di casa degli Stati Uniti. Cuba è per tutti questi popoli un simbolo di resistenza e difesa della propria sovranità e del proprio diritto all’autodeterminazione, contro le pretese egemoniche e neocoloniali. Porre fine al blocco contro di lei significa rinunciare ai tentativi costanti ed anche recenti di voler scegliere da Washington il destino dei paesi considerati poco più che colonie, all’appoggio ai colpi di stato e ai disegni di destabilizzazione, che non sono ancora finiti, e non appartengono solo al secolo scorso. Basti pensare al fallito colpo di stato contro il Venezuela del 2002, o all’appoggio sfacciato dell’ambasciatore nordamericano all’oligarchia boliviana della mezza luna, nel suo intento, tutt’altro che sopito, di sabotare e rimuovere Evo Morales. Solo pochi giorni fa, vale la pena ricordarlo, Morales è scampato ad un piano di assassinio nei suoi confronti.

Un nuovo inizio quindi significa rispettare la sovranità ed il diritto all’autodeterminazione di tutti i popoli latinoamericani. Rimuovere l’embargo è quindi precondizione per aprire un nuovo inizio non solo con Cuba, ma con tutti i paesi oggi governati da forze progressiste e di sinistra, con programmi antiliberisti che hanno come priorità la difesa delle risorse nazionali e la redistribuzione della ricchezza.Il blocco commerciale contro Cuba è un atto illegittimo e contro il diritto internazionale. Condannato per ben 17 volte di seguito da parte dell’assemblea generale delle Nazioni Unite con il voto favorevole di tutti gli Stati del mondo, tranne Usa, Israele e qualche isoletta paradiso fiscale. Un blocco che ha significato per Cuba e il suo popolo costi economici e politici altissimi. Non è solo Fidel Castro a sostenere che la sua rimozione è un atto di giustizia e di risarcimento di 50 anni di assedio , nonostante il quale Cuba ha mantenuto le sue conquiste sociali, e continuato ad esportare istruzione e cultura in tutta l’America Latina e in Africa. E’ stata Cristina Kirchner, la presidente argentina, che ha rivolto le seguenti parole a Barack Obama :“la fine dell’embargo contro Cuba non può essere un punto di arrivo di un percorso ma una precondizione .”Anche l’Argentina, d’altronde, ha tristi ricordi di cosa ha significato l’interesse di Washington per i suoi destini. E ha subito le conseguenze del modello neoliberale imposto dagli organismi che hanno guidato la globalizzazione capitalista. Certo, per Obama, non sarà semplice rimuovere in due giorni un blocco che dura da decenni . Ma chi sostiene che aver ribadito la permanenza del blocco sia un favore a Cuba e a Fidel , fa un’offesa alla verità , oltre che dire una grandiosa stupidaggine. Forse una copia del libro di Galeano andrebbe regalata anche a loro. Cuba stessa, per la prima volta, ha chiesto formalmente una sua sospensione per via dei devastanti uragani che l’hanno flagellata nello scorso anno, con per fortuna pochissime perdite umane, grazie al suo sistema di prevenzione, preso a modello dalle nazioni unite. La risposta da parte di Bush è stata naturalmente la chiusura totale. Oggi Obama, rimuovendo solo le nuove sanzioni che proprio Bush aveva introdotto, da un segnale di speranza , ma che in termini concreti significa ben poco. Anche da L’Avana, Raul, ha aperto al dialogo. Chavez, reinviando un diplomatico negli Usa, ha fatto lo stesso. Ma alle dichiarazioni devono seguire gesti concreti . Per questa ragione il testo finale dell’incontro, dove non vi era accenno alla rimozione del blocco, non è stato firmato per l’opposizione dei paesi dell’ALBA. Che non lasceranno sola Cuba nella sua battaglia per la difesa del suo diritto all’autodeterminazione. E che chiedono che a cambiare sia una storia lunga decenni, di sopraffazioni e di ingerenze. Una storia che è stata negli anni recenti quella del tentare di imporre trattati di libero scambio e di politiche economiche volte a impiantare quel modello neoliberista che sta crollando su se stesso, a partire dagli Stati Uniti..

Sempre Galeano, in un’intervista all’Unità del 2002 sull’America latina e la crisi argentina, descriveva tutto ciò con queste profetiche parole:Oggi stiamo ipotecando il destino di intere generazioni. Il meccanismo dei prestiti internazionali è come un cappio stretto intorno al collo di un condannato che si lascia deliberatamente in fin di vita. Il debito estero di fatto impedisce ai governi democraticamente eletti di decidere quale tipo di politica economica e sociale utilizzare per risolvere i problemi strutturali tipici dei paesi del cosiddetto terzo mondo. In America Latina non vola una mosca senza il permesso dell’alta finanza internazionale. I tecnici e gli economisti degli organismi finanziari decidono su tutto. I nostri paesi non sembrano capaci di governarsi da soli e ricorrono a governanti che sono teleguidati dall’esterno, come marionette. Ogni volta che un ministro dell’economia sudamericano vuole emettere un decreto, anche il più piccolo e insignificante, anche per decidere se dipingere una porta o cambiare un citofono, viaggia prima a Washington per chiedere il permesso. Questa è la regola d’oggi: i creditori possono decidere assolutamente tutto nella vita dei debitori. Arrivano i prestiti, ci strangolano con condizioni che bloccano il nostro futuro, ci fanno pagare quattro dollari per ogni dollaro che riceviamo e noi in coro diciamo “che bello”, “che fortuna, siamo finalmente incorporati alla cosiddetta “comunità internazionale”. Abbiamo bisogno di recuperare la nostra ormai perduta dignità nazionale. Ma non è facile.
Non sarà facile uscire dal neoliberismo e da questo modello economico, ma ora, l’america latina, grazie anche a Cuba e alla sua dignità, ci sta davvero provando. Ed è questo il nuovo inizio di cui c’è bisogno.