Sì, il ritiro da Gaza comincia. Centinaia di famiglie hanno già abbandonato le proprie case. Nelle ultime ore sono cominciati anche scontri tra esercito e polizia e alcuni dei gruppi giovanili della destra radicale giunti là per «impedire il sacrilegio, impedire il tradimento, evitare che si compiano i disegni del dittatore Sharon». La polizia e l’esercito li trattano con i guanti di velluto. Negli ultimi anni, in modo aperto o occulto, l’esercito e i coloni sono stati alleati nel mantenere la brutale colonizzazione dei territori occupati. Ora l’idillio si rompe e le regole cambiano.
Le radio, tutte le reti televisive, tutti i quotidiani, migliaia di giornalisti stranieri: il ritiro è il tema centrale delle nostre vite ventiquattr’ore al giorno, un’intensità che aiuta a deformarne enormemente il significato, il passato recente, il futuro prossimo.
Il premier Ariel Sharon ieri ha parlato alla nazione. Non è stato un grande esercizio retorico ma c’è qualche ragione per l’ottimismo di qualcuno e il pessimismo di altri: Sharon parla di un processo molto doloroso – anche per lui, grande architetto delle colonie nei territori occupati -, un processo che però agli occhi del premier apre la porta a futuri negoziati per un futuro migliore.
Sì, è terribile, famiglie intere si vedono obbligate a lasciare le case che hanno abitato per oltre trent’anni, i vicini, i ricordi, le tombe dei cari. Questo è sempre doloroso. Ma le lacrime versate dai coloni e gli abbracci con i soldati che li aiutano a partire creano un’immagine esageratamente umanitaria e compassionevole che contrasta molto con quel che si può vedere attorno alle colonie israeliane di Gaza. E’ terribile, famiglie intere che abbandonano le proprie case. Da molte delle finestre dei coloni si possono vedere i resti di alcune delle case di palestinesi che i soldati «umanitari» hanno distrutto negli ultimi anni. Circa trentamila palestinesi hanno assistito alla distruzione delle proprie case.
Le case, i giardini e gli alberi: alcuni dei coloni si portano via degli alberelli per trapiantarli. Sì, sono scene che emozionano, ma non quanto vedere le migliaia di alberi che l’esercito ha distrutto nelle terre palestinesi attorno alle colonie «per garantire la loro sicurezza». Terre che erano fertili e oggi sterili, contadini palestinesi che non possono raggiungere i propri campi, bambini palestinesi morti perché si erano spinti «troppo vicino ai varchi». Mentre loro, gli addolorati coloni, abitavano nel «paradiso» fondamentalista finanziato da tutta la società israeliana al fine di impedire qualunque passo reale verso la pace. Per tutti gli emozionati umanisti che oggi si abbracciano piangendo, i palestinesi allora non erano parte della realtà. Forse qualcuno tra soldati, poliziotti e coloni israeliani ripenserà a cosa ha voluto dire per migliaia di palestinesi la politica della distruzione sfrenata degli ultimi anni, epilogo logico di trentotto anni di occupazione. La verità è che nemmeno oggi i palestinesi diventano attori nel gran dramma – o grande farsa – del ritiro da Gaza.
Sì, il miracolo che i fondamentalisti ebrei aspettavano non si è realizzato. Il Messia non arriva, anche se qualche lunatico ancora oggi dice che non è detta l’ultima parola. E’ vero, il processo è solo all’inizio, ma intanto centinaia di famiglie hanno già abbandonato le loro case, che ormai attendono la demolizione finale.
Siamo lontani però anche dal miracolo in cui credono i moderati, quelli che pensano che ora si aprirà un vero processo di pace. Alcuni appoggiano Sharon senza condizioni e lo considerano un nuovo De Gaulle. Molti non capiscono che il veleno nazionalista e fondamentalista è arrivato già a troppi organi vitali di una società malata. Malata per l’occupazione, per il rifiuto ostinato delle soluzioni di pace basate sul riconoscimento dei diritti dei palestinesi e non solo sulle rivendicazioni di sicurezza per Israele, una superpotenza atomica che domina la regione.
I processi storici spesso vanno oltre le intenzioni di coloro che li cominciano. In questi giorni succede qualcosa di drammatico in Israele, sotto il confronto diretto tra una destra pragmatica e una destra fondamentalista.
Da una parte, la maggioranza della popolazione appoggia il ritiro da Gaza. Ma molti israeliani non si interessa di quanto sta succedendo lì. I coloni e la destra – lo ha detto anche l’ex ministro Landau, un superfalco che si propone come futuro candidato premier del Likud – hanno mobilitato per lo più elementi ultrareligiosi e coloni religiosi. Hanno brillato per assenza i laici o i religiosi moderati, che appoggiano la destra ma sono più pragmatici o si dicono scontenti per una politica che ha favorito i coloni a spese degli strati più poveri della popolazione.
D’altra parte «esce dalla lampada» il demonio del fondamentalismo ebraico. Con violenza, senza remore, oggi sono al centro della discussione gli elementi base di un processo che porterebbe a uno stato clericale – anche se spesso occultati sotto la retorica delle regole democratiche. Ma è chiaro il carattere confessionale della democrazia che i rabbini della destra radicale vogliono. E questi sono tuttavia più moderati dei gruppi ultrafascisti che si preparano a intensificare gli scontri.
Il processo storico che aveva portato alla costruzione delle colonie sembrava irreversibile. L’obiettivo era impedire una vera pace. Nel 1979 l’allora premier Menachem Begin aveva firmato gli accordi di Camp David per rendere impossibile la costruzione di uno stato palestinese o il ritiro da Gaza e Cisgiordania. L’allora ministro dell’agricoltura Sharon costruiva nuovi insediamenti mentre Begin discuteva di pace con gli egiziani. Più tardi il ministro della difesa Sharon ha diretto la ritirata dal Sinai e la distruzione della città di Yamit. Oggi il premier Sharon vuole migliorare le relazioni con gli Stati uniti e ha cominciato ad avanzare sulla «road map» del presidente George W. Bush. Il cow boy texano è impantanato in Iraq e ha bisogno di mostrare qualcosa di positivo ai suoi amici in Medio oriente. Tutto questo potrebbe disturbare uno dei principali progetti di Sharon: con il ritiro da Gaza e il «trauma» nazionale sarebbe più facile posporre i negoziati di pace.
Ora però gli israeliani possono constatare che il cielo non crolla quando si abbandonano le colonie. Gli israeliani e l’opinione pubblica internazionale cominciano a capire – Sharon incluso – che sarà necessario parlare. Molti dovranno capire che non si può fondare la pace sui piani annessionisti dei diversi governi israeliani. L’alternativa sarebbe una nuova sanguinosa esplosione alla prima paralisi del processo politico.