Nuova marcia a Pechino «La campagna sia socialista» (con le regole del business)

Una sbornia da crescita. Eccessiva. Scomposta e sbilanciata fra città e campagna. Che va riportata nei binari della sostenibilità e della compatibilità per spegnere le bolle speculative. È la sfida (chiamata «costruzione di una campagna socialista» dopo quella della fine degli anni Novanta del «socialismo di libero mercato») che la Cina stordita dal successo lancia per non rimanere schiacciata proprio dal suo stesso gigantismo. O riuscirà a coinvolgere le zone rurali nel miracolo oggi confinato alle metropoli o il timore di un conflitto fra sviluppo e sottosviluppo si affaccerà con prospettive concrete. Con questo ragionamento il governo di Pechino si propone alla Assemblea del Popolo che discuterà per sette giorni il piano economico programmato fino al 2010.
La sguardo al passato offre cifre impressionanti. Dal 2000 al 2005 la Repubblica popolare ha visto il suo Prodotto interno lordo, calcolato a prezzi correnti, crescere del 57,3 per cento. Un record che le ha consentito di sorpassare Italia, Francia e Inghilterra e di essere ora la quarta forza economica al mondo. Per giunta con un potenziale di riserve valutarie, accumulate dal 2000 grazie alla sua vocazione di «fabbrica da esportazione», del valore di 818,9 miliardi di dollari. La Cina è una calamita gigantesca che ha richiamato negli ultimi dodici mesi 60,3 miliardi di dollari di investimenti stranieri; che ha procurato nel 2005 un ulteriore passo in avanti del volume commerciale complessivo (import ed export) del 23,2 per cento, nel 2000 era di 509,65 miliardi di renminbi (50 miliardi di euro), nel 2005 è triplicato a 1.422,1 miliardi (140 miliardi di euro); che ha infine stimolato spese nel settore tecnologico, educativo e culturale pari a circa 113 miliardi di euro, il 18,3 per cento di incremento solo sul 2004. Una economia-Stato sempre più vicina al modello dell’economia di mercato.
I numeri affascinano e ci raccontano la Cina da boom dell’ultimo quinquennio. Ma dietro a questi strabilianti dati, portati dal premier Wen Jiabao ai tremila delegati della Assemblea del Popolo, il «Parlamento» che si riunisce una volta all’anno, vi è la certezza di una realtà squilibrata. Il divario che oppone nuova ricchezza urbana, dove il reddito annuale pro capite (10.493 renminbi, circa 1.000 euro) aumenta del 9,6%, a vecchia miseria nelle campagne dove il reddito pro capite (3.255 renminbi, poco meno di 300 euro) sale del 6,2% ha fatto suonare l’allarme nei vertici dello Stato e del Partito comunista. Una contraddizione chiara che sta causando scosse sociali, rivolte e di conseguenza preoccupazioni sulla futura stabilità politica del Paese.
Nei cinque anni passati il tentativo di ridistribuire in modo equo le risorse è fallito. La Cina è avanzata nelle classifiche del benessere medio dei cittadini, però il costo della sua rincorsa è stato pesante. All’incapacità di sostenere uno sviluppo ordinato e bilanciato fra le province e le regioni autonome si sono affiancate problematicità causate da processi di industrializzazione e di urbanizzazione spinti ai massimi livelli. Corruzione diffusa, inquinamento, consumi energetici al di là delle previsioni, funzionalità amministrativa precaria, assenza di un sistema di sicurezza e di garanzie a protezione del lavoro, dell’igiene pubblica, della salute, della vecchiaia.
Partendo da questa doppia consapevolezza (le performance del periodo 2000-2005, le disparità che ne sono derivate) la Cina si trova adesso nel mezzo di un lungo cammino al quale è necessario imprimere una rotta differente. Il premier Wen Jiabao, 64 anni con laurea in geologia, leader popolare per la sua riconosciuta capacità di non isolarsi nelle impenetrabili stanze della aristocrazia del Partito comunista, ha dato una onesta rappresentazione degli antagonismi che scuotono la società cinese. E ha riconosciuto (lui che è a capo del governo dal 2003) le distorsioni del sistema nonché l’ urgenza di ritoccare il modello di modernizzazione.
Gli obiettivi che ha indicato e che costituiranno le tracce guida delle scelte di macroeconomia per una «nuova strada di industrializzazione» orientata soprattutto alla crescita nei settori della informazione, della tecnologia, della finanza, della distribuzione, del turismo e dei servizi dicono che nei prossimi cinque anni il Prodotto interno lordo dovrà rallentare la crescita dal 9,5 al 7,5 per cento medio, contemporaneamente il reddito pro capite dovrà raddoppiare, i consumi di energia diminuire del 20 per cento, l’inflazione restare congelata al 3 per cento, le emissioni di veleni nell’aria essere contenute almeno del 10 per cento. In cima agli impegni finanziari il trasferimento di risorse verso le campagne: «La nostra priorità è costruire una campagna socialista». Al centro vi è la formazione di un contadino «che abbia una buona educazione di base e conosca sia le tecniche agricole più avanzate sia le operazioni di business all’avanguardia, usate nelle città».
La Cina riconferma così la scelta delle riforme. Non compie passi indietro. Riformula la sua politica di sviluppo. Dalla quale però non cancella la spesa militare. Anzi. Nel 2006 la aumenterà come mai era accaduto. Più 14,7 per cento. «Per scopi di difesa e non di attacco». Capitolo comunque controverso che metterà l’amministrazione americana, sensibile all’argomento, sulle spine. Proprio alla vigilia della visita del presidente cinese Hu Jintao a Washington, programmata per il prossimo mese.