Nunzio ha avuto la fortuna di non dover sparare sui tedeschi e quindi la fantasia, il coraggio, l’agilità e la determinazione li ha usati per fare l’artista; sarebbe meglio dire per fare lo scultore anche se questo termine a molti sembra oggi un po’ invecchiato. Plasmare la materia con velocità spericolata e fantasia inesauribile, del resto, fu per lui naturale sin dai primi anni di scuola. Come fu naturale vivere a contatto con le durezze della montagna negli anni dell’infanzia e, poi, quando la famiglia si trasferì a Roma per molti anni ancora, da ragazzo, durante i mesi estivi.
Questi tratti biografici non sembrino inutili e agiografici perché, invece, tornano utili per capire il lavoro di un artista il quale, pur conoscendo una maturazione continua e progressiva, guidata dallo studio e dalle esperienze nelle province del mondo, fin dagli esordi della fine degli anni Settanta, ha mostrato alcune caratteristiche di sicuro legate ai dati genetici e ambientali della sua formazione. Predilezione per materiali poveri e fuori della cronaca come il gesso, il legno e il piombo, sobrietà, gusto dell’antiretorica, amore per l’essenzialità della forma e, insieme, per una idea di forza che deriva non solo dall’incombenza dei pesi e dei volumi ma anche dal rincorrersi di linee che l’osservazione della natura deve aver in qualche modo suggerito sono alcune di queste caratteristiche, che trovano corrispondenza nei tratti i del suo carattere: attaccamento al lavoro fisico e a tutti gli aspetti realizzativi, inquietudine e ritrosia verso i dogmi, ruvida gentilezza e amore avido per la ricerca. Una naturale disposizione per le istanze archetipiche fa pensare ad una influenza forte di quei miti che percorrono la vita del mondo contadino più a contatto con una natura aspra e spesso ingenerosa, una cosa che richiama alla mente, tanto per fare un esempio, l’influenza delle Langhe nella formazione di Cesare Pavese.
Entro questo orizzonte che ha arricchito il bagaglio di conoscenze e di stimoli che poteva essere fornito dalla vita nella grande metropoli, si è collocata l’esperienza plastico-pittorica di Nunzio. Ci furono poi l’Accademia e il lusso di maestri come Toti Scialoja. Ci fu l’esperienza di lavorare sotto lo stesso tetto, l’ex Pastificio Cerere, con un gruppo di compagni di strada che insieme a lui diedero vita a quella che fu soprannominata Nuova Scuola Romana o Scuola di San Lorenzo (sulla storia di questa pattuglia di artisti è recentemente uscito un libro edito dagli Editori Riuniti).
L’insieme di questi elementi, credo, suggerirono a Gillo Dorfles di attribuire all’opera di questo autore «un giusto equilibrio tra natura e artificio, tra invenzione fantastica e sapiente». Si tratta di un percorso disteso fra i poli della necessità quasi fisica di celebrare, rivisitandole, le forme più primitive ed arcaiche e l’urgenza di una ricerca che si colloca entro l’orizzonte del moderno, respingendo le oblique seduzioni della congiuntura postmoderna.
Per chi avesse la fortuna di poterla visitare o di avere fra le mani il bellissimo catalogo che la accompagna – parliamo della mostra “Nunzio ombre” curata da Lea Vergine e in calendario fino al 18 marzo alla Galleria dello Scudo di Verona – c’è la possibilità di avere un’idea del meglio della produzione di questo artista che, per altro, si caratterizza per una costanza di qualità significativa nell’attuale panorama dell’arte contemporanea.
La mostra si apre con una grande ambientazione costruita attraverso una fitta selva, dall’andamento curvilineo, di aste sottili di altezza diversa in legno combusto (bruciare il legno sino al limite del suo mantenimento in vita come materiale utilizzabile è una delle caratteristiche del linguaggio di Nunzio).
Dopo questa pattuglia di agili sentinelle di un nero cangiante in funzione della luce, si ha accesso alla sala al centro della quale incombono due sculture verticali, sempre in legno bruciato, potenti e al tempo stesso leggere e fluttuanti per l’andamento curvilineo dell’una e quasi spiraliforme dell’altra.
Si giunge quindi al “colpo di teatro” offerto dal trapassare di un’opera da una parete all’altra attraverso la penetrazione di aste ricurve, nere ed incursive, che finiscono per occupare contemporaneamente due stanze, abbattendo una barriera fisica e mentale.
I grandi disegni eseguiti su carta giapponese permettono di prendere confidenza con una forma espressiva dell’arte di questo autore autonoma rispetto alla ricerca plastica: i disegni di Nunzio non sono preparatori, sono opere compiute. Che sulla carta si distendano rette tracciate a carbone o andamenti ricurvi di linee sospese, in ambienti sfumati con sapienza di neri e di grigi, è cosa naturale perché tratta da un mondo delle idee (delle immagini) tutto mentale e in qualche modo “superiore” alla scelta delle due o delle tre dimensioni.
La mostra si presta magnificamente alle esigenze di chi voglia accostarsi ai “fondamentali” del lavoro di questo artista accanitamente alla ricerca, come un viaggiatore che non conosce fatica, di nuove soluzioni, di nuove armonie, di proporzioni e sproporzioni, di simmetrie non euclidee, di incursioni liriche governate dal gusto per l’essenziale e il disadorno. Il rapporto con lo spazio della sua scultura sempre aniconica, ma sempre evocativa, è studiato con attenzione quasi maniacale. Il miracolo che rende possibile la fragranza e la “spontaneità” del suo lavoro è una delle ragioni più profonde del suo valore.
Dalle prime mostre all’Attico di Roma e da Annina Nosei a New York negli anni ’80, sino alla recente grande esposizione del 2005 al Macro di Roma, sino alla personale di Verona, Nunzio non si è fermato mai. Non fa parte della sua natura arrestarsi e rinunciare, anche di fronte alle imprese più ardue. Buon sangue non mente.