Nucleare. Il boomerang torna a “casa”

Ci voleva Osama bin Laden a farci scoprire il pericolo delle armi nucleari. “Abbiamo armi chimiche e nucleari come deterrente – ha detto in un’intervista al giornale pachistano Dawn – e, se l’America le usa contro di noi, ci riserviamo il diritto di usarle” (The New York Times, 10 novembre). Bluff o no, in Occidente è subito suonata la sirena d’allarme, amplificata come sempre dalle trombe dei media.
Poca impressione ha invece suscitato, appena un mese e mezzo fa alla vigilia della guerra, la dichiarazione del segretario statunitense alla difesa Rumsfeld che “gli Stati uniti non hanno mai escluso l’uso di armi nucleari” (Ansa, 23 settembre).
Tantomeno ci si è preoccupati dell’annuncio, fatto il giorno prima, che “l’amministrazione Bush ha tolto le sanzioni imposte al Pakistan e all’India per i loro test nucleari del 1998” (The New York Times, 22 settembre). Né i media hanno dato risalto alla notizia dell’arresto in Pakistan di tre scienziati nucleari, sospettati di aver fornito tecnologie nucleari a Osama bin Laden e ai talebani (The New York Times del 31 ottobre). Né grande attenzione è stata dedicata all’allarme lanciato da The New Yorker il 5 novembre: “La caccia dell’amministrazione Bush a Osama bin Laden e alla sua rete Al Qaeda si è trasformata in una crisi regionale che ha messo a rischio l’arsenale nucleare del Pakistan e accresciuto la possibilità di un conflitto nucleare tra Pakistan e India”.
Né è stato dato rilievo alla notizia, sempre del New Yorker, che l’amministrazione Bush sta preparando una unità di élite della Cia con il compito di impadronirsi, insieme all’unità israeliana 262, dell’arsenale nucleare pakistano se la crisi si approfondisce.
Nessuno ha ricordato la storia dell’arsenale nucleare pakistano. Il Pakistan fu aiutato negli anni ’60 e ’70 da società statunitensi, olandesi, tedesche, francesi, svizzere e britanniche, che, con la sostanziale autorizzazione dei rispettivi governi, gli fornirono tecnologie e impianti nucleari, ufficialmente per uso civile, ben sapendo che li usava a scopo militare. Il primo impianto per la produzione di plutonio fu costruito in Pakistan, a Chasma, dalla Sgn francese; un secondo fu realizzato a Rawalpindi dalla stessa Sgn e dalla società belga Belgonucleaire.
Quasi nessuno ha avuto un minimo ripensamento autocritico sul modo in cui sono state sottovalutate o ignorate le continue notizie sulla fuga di materiale radioattivo dagli arsenali nucleari ex sovietici, ora russi.
E tali fatti sono appena la punta dell’iceberg: la crisi economica e politica dell’ex Urss, le privatizzazioni selvagge, i poteri conquistati dalle reti mafiose, la povertà in cui sono sprofondati anche ampi settori delle forze armate, hanno creato le condizioni non solo per il commercio di materiale radioattivo ma, non è escluso, anche di armi nucleari. Né va sottovalutata la fuga di cervelli dall’industria nucleare militare dell’ex Urss: molti scienziati e tecnici di alto livello sono stati costretti dalle ristrettezze economiche e dalla mancanza di lavoro a emigrare. Non si può escludere che qualcuno, attirato da grosse offerte di denaro, si sia messo al servizio di qualche paese od organizzazione in qualche parte del mondo.
Sullo sfondo di tale situazione, c’è la pretesa di consolidare e giustificare “legalmente” il possesso di armi nucleari da parte di poche potenze che, riunite in una sorta di direttorio nucleare capeggiato dagli Stati uniti, dettano legge accordando la loro “protezione” ai paesi non nucleari e stabilendo quali paesi possono e quali non possono possedere armi nucleari. Questo, dopo aver costruito, dal 1945 al 1995, 130mila armi nucleari e aver rifiutato, finita la guerra fredda, il disarmo nucleare: le armi sono state sì ridotte di numero, ma migliorate qualitativamente per renderle più micidiali. Così il mondo, con o senza bin Laden, continua a essere minacciato dall’olocausto nucleare.