In vista di un appuntamento così importante – com’è quello del referendum del 25 giugno – ci si sarebbe attesi un impegno più convinto da parte del centro sinistra. In realtà, l’avvio della campagna elettorale è stato tardivo e non valgono qui più di tanto le giustificazioni sull’affollamento degli impegni istituzionali delle ultime settimane, anche perché, nel momento in cui le forze maggiori del centro sinistra sono scese in campo l’hanno fatto in modo timido e spesso contraddittorio.
Innanzi tutto, la pericolosità della riforma costituzionale approvata dal centro destra non è risaltata adeguatamente. Vari interventi hanno messo in luce gli aspetti negativi del provvedimento varato dal centro destra, ma molto spesso la critica si è concentrata sulla contraddittorietà delle soluzioni istituzionali adottate, anziché sulla pericolosità di un modello socialmente devastante. Si è così polemizzato con la “devolution” sostenendo che alla supposta valorizzazione delle autonomie regionali si contrapporrebbe in realtà (come ha sottolineato Fassino) un disegno centralistico o si è contestata la proposta di premierato affermando che (è il caso di alcuni costituzionalisti, come Barbera) il premier avrebbe un potere solo “apparentemente assoluto”, poiché sarebbe fortemente condizionato dalle forze minori della propria coalizione.
In verità, questa “depoliticizzazione” del dibattito – e quindi la sua inevitabile e simmetrica “tecnicizzazione” – sono rivelatrici, da un lato, dei vincoli pregressi che continuano a condizionare i comportamenti delle leadership delle principali forze del centro-sinistra e, dall’altro, degli intenti che muovono le stesse in vista dell’appuntamento referendario. I vincoli sono legati all’esito infausto della “bicamerale” e al suo approdo pasticciato e provvisorio: la riforma varata nel 2001 che ha fornito così brutta prova di sé alimentando un conflitto istituzionale allargatosi a dismisura fra regioni e stato. Quella riforma venne all’epoca considerata una soluzione parziale, restando ancora sospese alcune questioni, quali: la forma di governo, la struttura bicamerale del Parlamento, il federalismo fiscale. Per non parlare dello spettro della riforma elettorale sempre aleggiante.
Se oggi si depoliticizza il referendum e se ci si ostina a garantire che all’indomani del voto referendario si riaprirà la stagione delle riforme istituzionali non è solo per ragioni tattiche ma anche per considerazioni di merito e cioè per la volontà – una volta cestinata l’impresentabile riforma berlusconiana – di rimettere mano alle questioni a suo tempo accantonate.
Ma dovrebbe essere altrettanto chiaro che disquisire di “assemblee costituenti” o, come va ora per la maggiore, di “convenzioni” significa non già pensare a modifiche puntuali (e necessarie) del testo costituzionale – in conformità ai dettami dell’articolo 138 – ma significa imboccare la strada della grande riforma con tutto ciò che essa comporta.
A tale proposito non c’è che da essere allarmati. Il punto di mediazione implicito con il centro destra – alla luce delle dichiarazioni di autorevoli esponenti del centro sinistra – sarebbe costituito da un premierato attenuato (rispetto all’attuale dispositivo voluto dal centro destra) ma ugualmente pericoloso, dato che mira esplicitamente a rafforzare i poteri del premier a scapito del Parlamento. Inoltre, tale rafforzamento costituirebbe il suggello di un sistema bipolare maggioritario (a questo alludono le proposte di legge elettorale prospettate da Chiti). Infine, il disegno istituzionale si compirebbe con l’introduzione del federalismo fiscale, una soluzione difficilmente prevedibile nelle sue conseguenze e tutt’altro che tranquillizzante.
Che questo disegno si possa compiere non è scontato ma i propositi simmetrici di semplificazione – in senso bipartitico – accarezzati in entrambi gli schieramenti dalle maggiori forze politiche fanno intuire quanto potenti siano le forze che spingono in questa direzione. In ogni caso, una simile revisione istituzionale difficilmente può essere considerata conforme al dettato istituzionale. E non solo perché nella Carta costituzionale viene considerato assolutamente centrale il ruolo del Parlamento (come correttamente ha sottolineato Scalfaro) ma anche perché lo “Stato delle regioni” cui si allude mal si concilia con un federalismo improvvisato e contraddittorio.
Va peraltro notato che, di fronte a modifiche così estese della seconda parte della Costituzione, i propositi di mantenerne inalterata la prima perdono di significato ed anzi richieste esplicite di una sua modifica trovano nuova legittimità. Non è un caso che le attenzioni della Confindustria comincino ad appuntarsi sull’articolo uno e sul presunto anacronismo rappresentato dal richiamo al lavoro, considerato come un residuo di “classismo”. In tal senso, non vorremmo essere etichettati come “conservatori” (categoria che molti nel centro sinistra aborrono) ma ci pare che un impegno a favore del No in questo scorcio di campagna elettorale debba muovere da un’opera di valorizzazione e di piena attuazione del testo istituzionale (dalla rimozione degli ostacoli che pregiudicano l’eguaglianza dei cittadini, al riconoscimento del diritto effettivo al lavoro al rispetto dei diritti inviolabili dell’uomo, al ripudio della guerra, fino alla realizzazione di una programmazione a fini sociali dell’attività economica).
Certamente vi sarebbero molti aspetti, anche di sostanza, che potrebbero essere recepiti negli articoli che compongono la prima parte della carta costituzionale. Vale per tutti la differenza di genere, o la sostenibilità ambientale, o i diritti dei migranti, ma poniamo attenzione a non farci sedurre dall’ansia emendatrice. Una costituzione (e ve ne sono illustri esempi nel mondo) non ha bisogno necessariamente di essere modificata se essa è sostenuta da un insieme di principi che conservano una validità generale e sono in sintonia con le nuove istanze che emergono dalla società.