Uno spettro si aggira nel dibattito in corso: sono le rivoluzioni comuniste del ‘900, di cui si mettono in discussione non solo errori e involuzioni, ma le radici stesse e la legittimità storica (sulla stessa lunghezza d’onda del “Libro nero del comunismo”). Il “peccato originale” viene individuato essenzialmente in due fattori: a) la conquista del potere statale (Folena, 23.1.04); b) il ricorso alla violenza. Per fuoriuscire dall’ingombrante ‘900 e dar vita a un “nuovo inizio” si propone la “non violenza” quale forma di lotta assoluta, universale e non negoziabile. Ciò sulla base di due motivazioni. La prima, di tipo “storico”: a differenza che in passato, si dice, “l’impero” è oggi talmente potente, da risultare invincibile sul piano militare; la seconda, di carattere “metafisico”: i metodi violenti di lotta “contaminano” chi li pratica e non possono assolutamente dar vita ad una nuova società (Menapace, 23.12.03, Russo, Revelli, 20.1.04). Entrambe le motivazioni mi sembrano problematiche.
Se “l’impero” (ovvero l’imperialismo a base Usa) ha oggi, sul piano militare una superiorità indiscussa, che intende usare per piegare i popoli del mondo e i possibili concorrenti delle altre grandi aree capitalistiche (in primis la Ue) non è però invincibile. Una simile visione (che introietta in modo subalterno il sogno di onnipotenza dei neocons americani) nasce dall’abbandono della teoria leninista, che, opponendosi al kautskiano “superimperialismo”, coglieva le contraddizioni tra imperialismi: La teoria dell’impero – unico, pervasivo, mondializzato – porta in sé anche l’idea di onnipotenza imperiale. Non si può separare l’analisi della guerra e della potenza militare dall’insieme dei rapporti sociali. Potenza militare e guerra non sono un assoluto, sono radicati in un sistema sociale, caratterizzato dalle sue specifiche contraddizioni di classe. Il terreno militare non è mai stato per i comunisti, né per le forze che nel XX secolo hanno praticato resistenze e lotte di liberazione, il terreno principale. La resistenza al nazifascismo o quella vietnamita all’aggressione Usa combinavano insieme lotta politica e lotta militare; non assolutizzavano l’uno o l’altro aspetto, ed è stato principalmente grazie al radicamento politico che hanno vinto contro nemici che apparivano strapotenti sul piano dei mezzi militari.
Il secondo argomento trascende ogni riferimento storico, ogni marxiana “specificazione storica” per collocarsi su un piano di generalizzazione universale e atemporale. Vi è in questa posizione radicale l’idea che l’uso del medesimo mezzo ti fa diventare come l’altro, ti contamina. E’ un’idea forte e di grande effetto. Ma è propriamente un’idea metafisica, che non riesce a concepire il processo storico, la transizione da una forma sociale all’altra, attraverso la contraddizione in cui gli opposti si compenetrano, per dar vita a un “superamento” che non è affatto il puro e semplice annientamento dell’opposto, sostituito da qualcosa di totalmente “Altro”, ma, una sintesi, che, come scriveva Marx, “porta ancora i segni della vecchia società dal cui seno è uscita”.
Viviamo e operiamo in condizioni storiche date, e come comunisti ci adoperiamo per rovesciare lo stato di cose presente. Ma esso è un dato, è la “verità effettuale” di Machiavelli, che Gramsci analizzava nei suoi Quaderni sotto la rubrica “rapporti di forza”. Non è sempre possibile scegliersi il terreno dello scontro. Se così fosse, i comunisti, che non hanno certo iscritto nel loro codice genetico la violenza e la guerra, avrebbero sempre scelto la “via pacifica”…
Gli imperialismi oggi dominanti hanno dimostrato di essere disposti a tutto e a passare su qualsiasi cadavere pur di conservare il potere economico e politico. E questa non è storia passata. Il secondo dopoguerra è costellato di interventi devastanti: dall’Indonesia alla Grecia, dal Cile di Allende all’Argentina, senza dimenticare che in Italia ha operato un’organizzazione come Gladio, pronta ad intervenire se i comunisti si fossero avvicinati troppo al governo. Il fascismo non è un incidente della storia, un bubbone sorto su un corpo sano, come pretendeva Croce, ma è un’alternativa che le classi capitaliste praticano quando il loro potere viene messo in pericolo…
Non ci troviamo di fronte a un “avversario”, che – come in una partita a scacchi o in un duello tra cavalieri – osserva le regole del gioco, nel rispetto reciproco, sentendosi parte di una comune civiltà, in cui riconosce l’altro non come alieno, ma proprio simile. Siamo di fronte ad un imperialismo ferocissimo e spietato, che considera – al pari del nazismo – il resto degli umani sottouomini, carne da macello su cui sperimentare nuove armi di distruzione di massa e che dichiara esplicitamente di non riconoscere altre regole del diritto internazionale che non siano quelle che gli sono favorevoli. Le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki lanciate contro civili inermi non sono meno crudeli ed efferate, nella loro logica come negli effetti, del campo di sterminio di Auschwitz. E’ irrealistico pensare che di fronte a tale barbarie, a tale rifiuto di “regole del gioco”, la pratica non violenta possa ottenere risultati significativi. Mentre è grande il rischio che essa rafforzi l’egemonia dell’imperialismo, con l’invito – implicito o esplicito – a rinunciare a qualsivoglia forma di resistenza armata alle aggressioni imperialistiche attuali o future. E, detto per inciso, si parlerebbe ancora di Iraq se non si fosse sviluppata lì una resistenza, anche militare, all’occupazione? Quella resistenza lotta anche per i diritti degli altri popoli minacciati dall’imperialismo, impone un freno alla marcia trionfale del militarismo Usa.