«Non usateci come copertura». Le ong italiane e l’Afghanistan

Lavoreremo con le organizzazioni non governative, consulteremo le ong: il ministro degli esteri Massimo D’Alema lo ha detto più volte, parlando dell’intervento italiano in Afghanistan. E le ong italiane, cosa dicono? Sono state consultate? «Per il momento abbiamo avuto contatti con il viceministro degli esteri Patrizia Sentinelli: questo significa che ora abbiamo un interlocutore, cosa che non succedeva con il governo predecente», risponde Cinzia Giudici, presidente del Cosv (una delle più antiche ong italiane di cooperazione allo sviluppo), e vicepresidente dell’Associazione delle Ong italiane. «Cosa diremo al governo? Chenonvogliamo essere usati come copertura», continua Giudici: «Alcune ong italiane lavorano in Afghanistan. Fanno un lavoro umanitario e civile, con partners locali di cui si fidano e che sono in grado di gestire i progetti. Nonhanno bisogno della ‘protezione fisica’ dei militari. Al contrario: la copertura deimilitari ci mette in pericolo». Un’organizzazione come Emergency sostiene da tempo che l’Italia deve ritirare il suo contingentemilitare dall’Afghanistan. Le altre ong cosa dicono? «Se e comel’Italia debba restare in Afghanistan è unascelta politica in cuinonvogliamo essere messi in mezzo, e a cui non vogliamofare da copertura», dice Giudici. Insiste: «Non abbiamo bisogno di militari per condurre un intervento civile, e questo è vero soprattutto in Afghanistan e in Iraq». In che senso, «soprattutto»? «Perché in queste due realtà è particolarmente forte il rischio di confondere tra intervento civile emilitare». La confusione di ruoli tra civili e militari è «il problema di fondo» per chi lavora inun paese in conflitto, dice Patrizia Santillo, presidente della ong emiliana Gvc (che sostiene un progetto sanitario a Kabul insieme a Hawca, ong di donne afghane nata anni fa nei campi profughi del Pakistan: ora non ha proprie persone sul posto, troppo costoso e pericoloso). «In Afghanistan i militari italiani non sono una presenza di interposizione. E noi nonvogliamo né possiamo essere confusi con i militari: sul piano della sicurezza e anche sul piano politico, perché noi lavoriamo per la pace, non la guerra». Il problema nasce dall’ambiguità della presenza militare occidentale, e italiana. «C’è una sovrapposizione tra l’operazione di guerra al terrorismo Enduring Freedom, che è un’iniziativa di guerra e unilaterale sotto il comando degli Stati uniti, e la missione Isaf che in teoria aveva il mandato di mantenere l’ordine in aiuto alle autorità afghane», riassume NinoSergi, presidente di Intersos, altraOngimpegnata in Afghanistan (continuativamente dal 2001): «Poi però l’operazione Isaf, passata sotto ilcomando Nato, è diventata anche un’operazione di caccia ai Taleban, cioè di guerra». La distinzione tra le due missioni si è annullata, e rischia di annullarsi anche la distinzione tra imilitari e gli operatori umanitari. «Siamo visti come un tutt’uno? E’ questo il rischio. Medecin sans Frontières ha rinunciato a lavorare in Afghanistan proprio perché la presenza militare aveva reso impossibile distinguere gli ambiti. Noi non ci siamo ritirati ma rifiutamo di lavorare a Herat dove c’è il contingente italiano». Il Forum Solint, che riunisce 5 ong (tra cui il Cosv e Intersos), in un comunicato di pochi giorni fa chiede di mettere fine («in tempi da concordare ma rapidi») all’operazione Enduring Freedom, rivedere in sede Nato l’operazione Isaf, e ampliare il programma di cooperazione e aiuti alla società afghana. Se e quando saranno consultate, questo andranno a dire le ong italiane.