NON SONO NEUTRALE (Palestina)

No, non comincerò questo articolo con la rituale dichiarazione di fede nel popolo ebraico e nello stato di Israele. Rifiuto l’idea stessa che la sinistra, ad ogni modo quella italiana, debba difendersi dall’accusa di antisemitismo: non solo perché tanti fra i suoi dirigenti e militanti sono stati – e sono – ebrei, ma perché è nei campi di sterminio nazisti che il sangue degli ebrei si è mischiato a quello dei comunisti. (E casomai trovo davvero triste che nel drammatico museo che a Gerusalemme ricorda quei luoghi di morte, nemmeno un cenno sia stato offerto a questi pur così numerosi compagni di martirio). Mi indigna, infatti, che proprio questo ossessivo bisogno di far precedere ad ogni atto di solidarietà verso il popolo palestinese tali dichiarazioni di fede abbia autorizzato il sospetto di una coincidenza fra richiesta di rispetto per i suoi così platealmente violati diritti e offesa ad Israele, così insinuando l’ipotesi di un antisemitismo della sinistra, suggerito contro ogni evidenza storica. Sicché siamo costretti a subire l’offesa di un Gianfranco Fini, che alza il ditino per ammonirci, ergendosi – lui e i suoi camerati – a difensori degli ebrei.
Sbarazziamo dunque il campo dai pretesti: oggi non è Israele ad essere in pericolo, ma il popolo palestinese ad essere concretamente massacrato. Il premio Nobel José Saramago ha detto che quanto sta accadendo in Cisgiordania è un crimine paragonabile a quello commesso ad Auschwitz e tutti hanno gridato alla bestemmia. Certo i due eventi non sono paragonabili, non tanto e non solo per via delle cifre dei morti; ma perché dietro alle camere a gas c’era un disegno teorizzato ed esplicito di genocidio e qui c’è semplicemente la pretesa che la terra occupata dai sionisti fosse disabitata (che però non è poca cosa, visto che per svuotarla, nel ‘48, i terroristi israeliani compirono una delle prime pulizie etniche) e ‘solo’ un odio di tipo quasi razziale, che mette paura. Ma come non capire la reazione dello scrittore portoghese, se si pensa che un ufficiale di Tsalal – e la citazione è del giornale israeliano «Ma’ariv» – ha potuto dire: «se il nostro lavoro consiste nel prendere i campi dei rifugiati densamente popolati o dislocarci nella Casbah di Nablus, un ufficiale deve tener conto delle lezioni delle battaglie del passato, inclusa l’analisi di come operarono i tedeschi nei confronti del ghetto di Varsavia»? Cosa è mai successo? E come è potuto accadere che un ufficiale israeliano possa arrivare a dire una cosa simile e a comandare gli eccidi di questi giorni? E come commentare le parole del leader del National Religious Party, recentemente accettato come ministro, che ha definito «un cancro» il 20 % dei suoi concittadini, gli arabi-israeliani (che peraltro hanno diritto di voto, ma per il resto – diritti sociali e civili – vivono in condizioni di apartheid)?
Sono interrogativi tremendi, che nessuno di noi avrebbe mai voluto doversi porre. E drammaticamente inquietanti: perché è da questo comportamento, da questa arrogante pretesa di impunità che vengono i veri pericoli per la sopravvivenza di Israele. Perché, infine, sono destinati a produrre insicurezza e odio permanenti, una prospettiva che nessuno che possa andarsene di lì – e i cittadini israeliani che possono farlo sono tantissimi – sceglierà alla lunga di sperimentare. Aveva ragione chi dopo la guerra del ‘67 aveva ammonito i suoi compatrioti, dicendo che il trionfo appena riportato sarebbe stato un frutto avvelenato. Avrebbe comportato colonialismo e distrutto l’identità democratica di Israele.
L’accordo di Oslo, nel 1993, con il riconoscimento di Israele da parte dell’Olp e la promessa di graduale ritiro dai territori occupati da parte del governo di Rabin, aveva aperto uno spiraglio. Ma l’accordo aveva lasciato i passi concreti da compiere per raggiungere tali obiettivi ad ulteriori negoziati, che invece non ci sono stati. Mentre sono continuati gli insediamenti dei coloni: Peace Now ha calcolato, il mese scorso, che da un’esplorazione aerea sulla Cisgiordania se ne potevano contare 34, costruiti solo nell’ultimo anno. Quanto alla famosa proposta Barak, che tuttora si rinfaccia ad Arafat di avere sconsideratamente rifiutato, possibile che non ci sia un ministro europeo abbastanza decente, da sentire il dovere di spiegare che quel piano non solo proponeva la restituzione soltanto dell’86% del 22 % del territorio della Palestina storica – e pazienza –; ma soprattutto intendeva lasciare barriere e autostrade (per uno sviluppo di circa 500 km) a protezione dei coloni e della loro mobilità, tutte presidiate dall’esercito, così da tagliare ogni continuità fra le macchie di leopardo, a cui sarebbe stato ridotto lo Stato palestinese. «200 cantoni – ha scritto l’«Economist» – enclaves non comunicanti». In cui – e perché no? – l’autorità palestinese avrebbe potuto esercitare la propria sovranità: «autogestione nelle prigioni», l’ha definita Uri Avnery ironicamente. Che aggiunge: «se poi questi bantustan si chiamino stato – o meno – a Sharon non importa niente, l’essenziale è la fornitura militarmente controllata in tutti i suoi movimenti di mano d’opera a basso costo e il vantaggio di mercati esclusivi».
Come sarebbe stato mai possibile per Yasser Arafat o per chiunque altro andare dai rifugiati – quel 50% del popolo palestinese, che viveva nei territori che oggi sono Israele ed è tutt’ora accatastato nelle baracche dei campi dove approdarono cinquantaquattro anni fa, quando furono brutalmente espulsi dai loro villaggi – e dirgli, guardandoli negli occhi : «per ottenere tanto poco – sono parole di un israeliano, But Morris, che oggi dice di non credere più alla possibile convivenza dei due popoli – ho venduto il vostro diritto di nascita, la vostra speranza, il vostro sogno»? Dire, insomma: «ho accettato di cancellare ogni vostro diritto a tornare nelle case delle vostre famiglie, ogni speranza di potervi un giorno riposare all’ombra dei limoni e degli olivi dei vostri giardini di Jaffa e di Samaria, di cui i nonni e i bisnonni vi hanno continuato a raccontare e voi siete andati qualche volta a sbirciare aldilà dei muri, che proteggono quelle che oggi sono diventate case israeliane». Il nodo del diritto al ritorno è, infatti, umanamente e socialmente il più difficile da sciogliere. Riconoscerlo è impossibile, e la leadership palestinese lo sa: dal momento che oramai equivarrebbe a mettere in discussione lo stato d’Israele. Ma questa consapevolezza nulla toglie alla legittimità della rivendicazione e per questo si è sempre parlato dell’esigenza di «una soluzione creativa», che almeno concedesse una compensazione, una indennità di esproprio, e, soprattutto, un minimo di stato palestinese, circoscritto, ma vero, da offrire in cambio.
È da questi campi di profughi, come è noto, che viene la maggioranza dei ‘martiri di Al Aqsa’, che con la loro azione disperata arrecano un danno incommensurabile alla causa, per cui pure si sacrificano. Ma equipararli ai terroristi di casa nostra o a quelli di Bin Laden, e sulla loro mancata denuncia – non politica, che Arafat l’ha pronunciata, ma morale, che è un’altra cosa – fondare la legittimità del massacro perpetrato a Ramallah, Jenin, Nablus, non è solo eticamente indegno, è anche contrario ai principi dell’Onu, che già nel lontano 1987 approvò una risoluzione sul tema in cui si distingueva fra terrorismo e azioni terroriste compiute nel quadro delle lotte di liberazione dal colonialismo o contro l’occupazione militare del proprio paese. In gioco c’era la storia della resistenza europea e della stessa Israele. Su un piano morale conta poco che questo paragrafo, da tutti approvato, non fu fatto passare dal veto degli inconsapevoli Stati Uniti, appoggiati da una immemore Israele.
È persino ovvio ripetere che il solo periodo in cui il terrorismo è declinato coincide con la speranza di una soluzione decente. Sharon, del resto, non liquida i terroristi, liquida innanzitutto i negoziatori e la credibilità e la forza delle autorità palestinesi, che potrebbero bloccare i kamikaze. E non trova ostacoli consistenti nel comportamento dei grandi del mondo. Perché in questo ultimo tempo è accaduto qualcosa di grave, che va al di là della vicenda israeliano-palestinese, e che ci coinvolge tutti in modo diretto: è tornata la guerra, la guerra come mezzo normale di regolamento degli affari internazionali, come strumento per applicare – frase indicibile – i ‘diritti umani’, i modelli di civiltà. Sharon non è che uno dei paladini di questo ritorno. Ma anche in Afghanistan si sono massacrati donne e bambini nei villaggi pastun. E già si discute come di un’ipotesi ‘normale’ di tornare in Irak.
È l’America di Bush a condurre il gioco, ma il suo oramai irriverente unilateralismo non trova, in definitiva, molte obiezioni. Persino nel senso comune della gente, che sembra assuefatta, tanto è vero che pochi gridano contro l’impensabile decisione di Washington di tornare a considerare l’uso delle armi nucleari, come non aveva mai fatto nemmeno ai tempi della guerra fredda. Dei nukes, per ora solo ‘mini’- si dice –, non se ne parla infatti solo come ultima estrema risorsa ma come normale tattica di battaglia, il ‘secondo stadio’ della lotta al terrorismo, da condursi con ogni mezzo e ovunque, anche attraverso interventi preventivi.
La teoria secondo cui l’America avrebbe dovuto passare da una politica estera difensiva e reattiva ad una aggressiva e protagonista, per impedire che si creassero altri centri di potere nel mondo, era stata avanzata già dieci anni fa da Cheeney e Wolfowitz, ma Bush padre aveva avuto pudore nell’acccoglierla. Oggi il primo è vicepresidente e il secondo consigliere del ministro della difesa: ed hanno ricevuto ascolto. E così l’agghiacciante documento Nuclear Posture Revew è stato a gennaio ufficialmente consegnato dal Pentagono al Congresso (e poi filtrato alla stampa a marzo). Questo parla di una riconsiderazione delle armi nucleari, che porti ad un loro uso più flessibile in circostanze che richiedano un intervento. Segue una lunghissima lista di paesi: Cina, Nord Corea, Libia, Siria, Irak, Iran e nientemeno che Russia, una inclusione che ha mandato su tutte le furie il pur fedele alleato Putin e suscitato una accorata reazione dei media moscoviti («L’America – è stato l’amaro-ironico titolo di un giornale assai filo-occidentale – prepara un amichevole intervento nucleare per la Russia»). Il paese, che aveva in un primo tempo accolto con favore l’intervento anti-islamico di Washington in Afghanistan, sta infatti scoprendo che per il 2003 sarà consolidata la presenza militare americana in otto o nove delle 15 repubbliche ex sovietiche.
Nel quadro di una politica che il vecchio Mc Govern si chiede se non sia ispirata da pura paranoia – visto che include anche un aumento del bilancio militare pari a 48 miliardi di dollari (è ormai superiore alla somma di quelli dei 25 paesi più grandi del mondo) e 75 alti funzionari statali sono da qualche tempo chiusi permanentemente in bunkers sotterranei, subito fuori Washington, nell’ipotesi debbano prendere le redini del paese dopo un attacco terrorista –, l’iniziativa di Bush in Afghanisthan sembra essere la sola razionale: delle 15 repubbliche ex sovietiche in cui è riuscito a mettere militarmente piede, grazie alla guerra contro il terrorismo, 5 sono infatti nel cruciale quadrilatero petrolifero dell’Asia centrale. Un bel colpo per Exon, Chevron-Texaco, Bp-Amoco, ecc., che progettano un oleodotto, che vada da quest’area fino all’oceano indiano. Bin Laden è servito anche a questo.
Assai più difficile, invece, trovare spiegazioni razionali per il minacciato attacco all’Irak. Dovrebbe essere infatti evidente che non è possibile appoggiare Sharon e contemporaneamente indurre re Abdullah di Giordania a dare carta bianca contro Bagdad, anche se il monarca giordano è il secondo beneficiario dei finanziamenti americani dopo Israele. E analogamente sperare di continuare ad usare a proprio piacimento la Turchia contro il resto del mondo islamico, facendogli esplodere la polveriera kurda: una volta occupato l’Irak, per il quale un’alternativa praticabile a Saddam non si scorge da nessuna parte, sarebbe comunque inevitabile concedere ai kurdi di questo paese una indipendenza, o anche solo un’autonomia, destinata ad innescare un processo minaccioso per Ankara.
Allo stato attuale persino il Kuwait ha detto che non ci starebbe. Perché mai, comunque, quest’ossessione dell’Irak, dove persino il più falco degli osservatori Onu ha dichiarato non esserci alcuna arma di distruzione di massa? Solo perché ancora viene rimproverato al padre (che per questo, si dice, ha perso a suo tempo le elezioni) di non aver portato a compimento l’operazione ‘Tempesta nel deserto’?
Inutile cercare un filo razionale; e neppure, come era nel caso di Ronald Reagan, una motivazione fanaticamente ideologica. Il giovane Bush non è un estremista religioso. Ma ha un solo principio, una sola ispirazione: quella elettorale. E sa che la carta della guerra al terrorismo è quella più sicura per conquistare gli americani. Per questo non può abbandonare Sharon, anche se gli costa l’indispensabile amicizia degli arabi: sarebbe un segnale di indebolimento della guerra al terrorismo, nemico comune. Dai democratici sulla politica estera non riceve più alcuna critica e anzi la più nota fra loro, Hillary Clinton, l’ha accusato di voler irresponsabilmente accelerare il ritiro dell’esercito israeliano dai territori occupati. Un noto giornalista riferisce di aver contattato il caucus progressista del Congresso, per sapere cosa dicevano su quanto stava accadendo in Medio Oriente. «Non lo so – è stata la sconcertante risposta –. Non è per noi una issue». Dal canto suo la Chiesa fondamentalista, contro ogni sua tradizione, si è schierata, fervente, a fianco di Israele, mettendo a disposizione i suoi predicatori-star, mentre tutto il paese è avvolto nella bandiera a stelle e strisce, annodata persino attorno al collo dei cani. Un patriottismo che acceca sulla devastante riduzione dei diritti in atto: in California sono arrivati a proporre una legge contro i residenti palestinesi.
Ci sono assai poche probabilità, dunque, che Bush intenda andare nei confronti di Sharon oltre qualche consiglio di moderazione, anche se il comportamento di Israele costa caro all’America nella sua strategia di lungo periodo. Se avessero voluto, agli Stati uniti sarebbe bastato, per frenare Tsalal, applicare la lettera della fornitura di armi ad Israele (il 75% dei tre miliardi di dollari annui di aiuti, più una sorta di ‘fuori busta’ di 625 milioni, per sviluppare il sistema missilistico Arrow e 1,3 miliardi per il carro armato Merkava, in complesso di più, e a condizioni finanziarie assai più vantaggiose, di quanto lo stesso Congresso americano non supponesse prima di ricevere dal proprio Centro di ricerca il rapporto Israele: l’assistenza estera americana). In base a tali accordi, infatti, qualsiasi arma fornita non deve essere utilizzata che per scopi strettamente difensivi. Ed è piuttosto difficile far passare come difensivo l’intervento degli F16 e degli elicotteri Apaches. Se Washington si è limitata a qualche rimbrotto non è perché non preferirebbe rendere meno tesa la situazione in Medio Oriente, ma è – come dicevo – perché quel che più conta, allo stato attuale, per Bush è tenere alta la tensione anti-terrorista. E Sharon è, in questa battaglia, il condottiero più efficace, magari, solo, un po’ troppo impulsivo.
Per fortuna c’è a livello della società civile anche dell’altro: i pacifisti, che si riorganizzano e cominciano a manifestare, qualche consapevolezza dei rischi che il crescente isolamento degli Stati Uniti sta producendo (ad esempio, lo schiaffo ricevuto dal fallimento del golpe in Venezuela: a Washington non capita spesso di perdere in modo così plateale).
I nervosismi dell’Europa, invece, non preoccupano né il presidente né i suoi sudditi; ed è difficile dar loro torto. Persino un suo fedele ex ministro – quello della cultura – ha scritto sul più autorevole periodico tedesco, «Die Zeit», «che il solo problema di Schroeder in relazione alla politica di Bush è che l’eventuale estensione della guerra all’Irak abbia inizio dopo e non prima delle elezioni in Germania». E il cancelliere, si badi bene, non è certo il peggiore dei governanti europei, e nemmeno dei leaders dell’Internazionale socialista.
E tuttavia proprio la preoccupazione del primo ministro tedesco rivela l’esistenza di un’opinione pubblica, che comincia a preoccuparsi: anche in Germania sono infatti tornati a manifestare i pacifisti, fino a ieri annichiliti dalle scelte del partito di riferimento della maggioranza di loro, i Verdi. Come peraltro in Gran Bretagna, dove 130 deputati e due ministri laburisti hanno minacciato di votare contro Blair in caso di avallo inglese ad un attacco all’Irak. L’Europa è più vicina degli Stati Uniti al mondo arabo ed ha perciò paura di una deflagrazione nella regione. E mentre in America i sondaggi valutano la simpatia per Israele a tre contro uno, in Europa è la simpatia per i palestinesi a raggiungere il rapporto di due a uno (si tratta di dati diffusi dall’«Economist»).
Questi segnali non sono molto, ma anche una modesta articolazione dello schieramento occidentale sarebbe preziosa per i palestinesi. Anziché invocare una «Palestina rossa» – che per ora è fuori dal mondo –, sarebbe bene proporsi con lucidità questo obiettivo, facendone un tema centrale del prossimo Forum sociale europeo, che si terrà in Italia a novembre. Per brutta che sia l’Unione europea, non è pur sempre la stessa cosa che l’America: e bisogna saper usare le contraddizioni, anche solo per ora potenziali.
Il movimento pacifista italiano – in prima linea in Cisgiordania, con centinaia di militanti coraggiosi, che hanno assolto ad un riconosciuto ruolo umanitario di vitale importanza – ha acquistato sul campo tutta l’autorità e la credibilità necessarie a pesare in questa vicenda.
Dimenticavo: la Borsa, la più lucida analista degli istinti del capitalismo globale. L’ultimo suo bollettino ricapitolativo ci dice che le prospettive delineate dagli esperti nel caso di un intervento contro l’Irak sono buie. Anche nel ‘91 fu così all’inizio e si assistette ad un improvviso declino del 10% dei valori. Ma due mesi dopo, quando fu evidente che ‘Tempesta nel deserto’ avrebbe avuto ragione del povero esercito iracheno, la curva si era invertita e la guerra terminò infatti con un 17% in più. È stato così in ogni vicenda bellica: dopo Pearl Habour, per esempio, ci fu un crollo del 40%, ma già poco dopo, l’indomani del glorioso raid di Dolittle su Tokio, gli investitori ridiventarono baldanzosi: e alla fine del ‘45 la borsa aveva registrato un aumento senza precedenti del 73%. Ma la storia non si ripete sempre – scrive la rivista specializzata «Barons». Oggi anche il rovesciamento di Saddam non darebbe gli stessi effetti, perché l’economia mondiale è già parecchio malata e le prospettive di lungo periodo aperte dalla vittoria americana del tutto incerte. A profittarne sarebbero solo i settori specializzati: quello militare e quelli dei sistemi di scurezza, così come quello petrolifero non medio-orientale (Bush stesso e soci).
E quale che sia l’arroganza americana già si delineano, in effetti, altri scenari: potrebbe accadere che la Cina, in prospettiva fondamentale soggetto internazionale, si collegasse con gli altri centri asiatici; o che il capitalismo russo si sviluppasse in rapporto con quello europeo; o, ancora, che ambedue dessero vita ad un unico polo euro-asiatico. Per ora si tratta solo di ‘fantasmi’, che già, però, producono ossessioni. E spiegano l’escalation militare innescata da Washington.
Ma il potere militare è, in definitiva il più debole fra i poteri. Alla lunga dovranno prenderne atto anche gli Stati Uniti. E, per primo, molto drammaticamente, anche il loro alleato Israele.