Caro manifesto, io domani andrò ad Assisi, ma non parteciperò alla marcia Perugia-Assisi. Non ci vado per non partecipare a un attacco che personalmente mi atterrisce e che è l’attacco alla lingua, cioè a quel codice di comunicazione che ci permette di essere uomini e donne.
Il problema è semplice. Secondo la lingua in uso c’è la guerra e c’è il suo contrario che è la pace. Come sempre succede, ci sono poi quelli che vogliono insieme la guerra e la pace, la guerra per avere la pace e la pace per preparare la guerra. Ma ci sono, ed è legittimo che ci siano, quelli che ritengono la pace alternativa alla guerra, e vogliono dire a quelli che fanno le guerre, anche con loro ottime ragioni, che non devono farle perché la guerra è ingiusta, inefficace, illegittima, e quant’altro. Quelli che intendono esprimere questa loro opinione (che è anche la loro etica, la loro scelta di vita, il loro messaggio) sono quelli che si sono inventata e hanno sempre fatto la marcia Perugia-Assisi.
Ora c’è qualcosa che accade in Afghanistan, e presto forse anche più in là. Secondo Alberico Gentili, che è tra i fondatori del diritto internazionale, la guerra è “publicorum armorum iusta contentio”, una giusta lotta fatta con armi pubbliche. Carl Schmitt aggiungeva che la guerra è la realizzazione estrema dell’ostilità, cioè “negazione assoluta”, e in ultima istanza, annientamento del nemico. La lotta condotta in Afghanistan è fatta con armi pubbliche? Sì. E’ giusta? Affermano di sì. Tende all’annientamento del nemico, terrorista e taliban? Sì. Dunque è una guerra.
Non discuto qui le ragioni dei suoi sostenitori, di quelli che votano a suo favore. Dico semplicemente che marciare “per la pace” significa avanzare, sostenere, caldeggiare l’altra opzione. Ma se quelli che stanno facendo la guerra marciano per la pace, o trasmettono un messaggio futile (dopo la guerra vogliamo la pace) o difendono la guerra dicendo che è pace o che è necessaria alla pace, allora le parole non servono più a denominare (distinguere) le cose. Non basta dire: siamo d’accordo sui fini, ma in disaccordo sui mezzi. Perché è proprio su quel “mezzo” che grava la distinzione. Nessuno di noi andrebbe a una marcia del Ku Klux Klan dicendo di essere d’accordo sui fini (la difesa dei valori identitari, religiosi e quant’altro) senza essere d’accordo sui mezzi. Non si vede perché i fautori del mezzo della guerra debbano andare a una marcia per la pace, anche scrivendo una lettera per convincere i marciatori a cambiare idea e a essere d’accordo con loro.
Qui non c’entra più la guerra e la pace. C’entra il tentativo, che mi sembra ostile, di catturare un simbolo, una forma di espressione, una manifestazione del pensiero degli altri, per svuotarli e rovesciarli nel loro opposto. Perciò è un attentato alla lingua, alla libertà di pensiero, al codice della comunicazione tra gli esseri umani. Perciò non andrò alla marcia, perché non basta camminare. Occorre scegliere.