“Non parliamo di letteratura per cento anni almeno”

Philip Roth concede interviste raramente. Mi ci è voluto poco per capire per quale motivo: non è che egli sia infastidito o sgarbato, semplicemente non può darsi la pena di rispondere sempre alle stesse domande, sempre le stesse.
«Di che cosa vuole che parliamo?» mi chiede Roth, sedendosi. Già così sento che sarà un incarico assai arduo. A settembre il New York Times aveva intervistato Roth sul suo lavoro, pubblicato da The Library of America. Soltanto altri due autori (Eudora Welty e Saul Bellow) hanno ottenuto un simile onore mentre erano ancora vivi. Eppure Roth non ha detto praticamente nulla al giornalista del Times, che si andava davvero disperando sempre più.
La mia fotografa si chiama Flash Rosemberg. Si adopera sempre molto per aiutarmi. Racconta di essere appena tornata da Berlino, dove l´hanno chiamata “Blitz” (flash in tedesco). Roth non ride. La fissa con uno sguardo vuoto, mentre lei saltella tutto intorno scattando fotografie. Ne scatta una con una Polaroid e inserisce la foto ottenuta in uno di quei souvenir a palla pieni di neve. Roth la capovolge e la neve in tutta calma gli cade in testa. «Pare proprio che io abbia un grave problema di forfora» dice con un tono di voce basso, parlando lentamente. «Questo poveretto ha davvero bisogno di un bello shampoo antiforfora».
«Ricorro spesso a questo trucco per far sorridere le persone» dice Flash.
«Io non sto sorridendo».
Segue una lunga pausa, un´agonia.
Perché non sorride?
«Una volta mi capitò una fotografa di New York. Non faceva altro che dirmi: “Sorrida”. “Sorrida!” Non la reggevo. Non sopportavo l´intera faccenda. Perché mai sorridere a una macchina fotografica? Non ha senso alcuno per un essere umano. Così mi sono liberato sia di lei, sia dei sorrisi».
Non sorride proprio mai?
Mi guarda. «Sì» risponde, «quando me ne sto in un angoletto e nessuno può vedermi».
Siamo seduti in una stanza sul retro dell´agenzia letteraria di Roth a midtown New York. La stanza è piena di libri di Salman Rushdie. «Probabilmente sistemare la stanza di Rushdie sul retro è più saggio» dice Roth, senza sorridere. È arrivato qui da casa sua, nelle campagne del Connecticut, per rilasciare un´intervista sul suo ultimo libro The plot against America (Il complotto contro l´America, edito in Italia da Einaudi), che in America e in Gran Bretagna è stato pubblicato tempo addietro, ma che soltanto adesso è pubblicato nel mio Paese, la Danimarca. Nel libro si immagina che Charles Lindbergh, il re dei cieli, vinca le elezioni presidenziali del 1940 e stringa un´alleanza con Hitler.
«L´idea mi è venuta leggendo l´autobiografia di uno storico americano. In una nota a piè di pagina egli riferiva che l´ala destra del Partito Repubblicano nel 1940 aveva tentato di candidare Lindbergh. Io non lo sapevo. Così mi sono ricordato che la mia famiglia aveva votato per Roosevelt e che tutti quelli che mi stavano attorno odiavano Lindbergh. Il nostro quartiere era interamente ebraico e tutti erano molto preoccupati per il suo atteggiamento fortemente critico nei confronti degli ebrei».
Nei libri di Roth gli ebrei compaiono ovunque, ma questo sembra davvero essere il più grande libro ebraico di Roth. «Ebraico?» dice. «È il mio libro più americano. É un libro sull´America, l´America. È un´utopia negativa americana. Lei non direbbe mai a Ralph Ellison che L´uomo invisibile è il suo libro più “negro”, non è così?». Mi fissa. Ripete: «Non è così?».
Forse no…
«Questo tipo di considerazione è un cliché dei giornali. “Letteratura ebraica”. “Letteratura nera”. Chiunque apra un libro si cala nella storia senza far caso a queste etichette».
Lei però è considerato uno scrittore americano-ebreo. Questo per lei non significa nulla?
«Non è un quesito che mi interessa. So esattamente che cosa significhi essere ebreo, e non è affatto interessante. Io sono americano. Non si può parlare di queste cose senza finire dritti dritti negli orrendi cliché, che non dicono nulla di un essere umano. L´America più e prima di ogni altra cosa è… la mia lingua. Le etichette di identità non hanno niente a che vedere col modo in cui ciascun essere umano sperimenta concretamente la vita».
Adesso parlo tranquillamente, come lui. Quasi sussurrando gli dico che è lui stesso nei suoi libri a parlare di identità. In Operazione Shylock si parla di chi è ebreo. In Il complotto contro l´America si parla di chi è americano.
«Ma io non accetto di scrivere fiction ebraico-americana. Non ci casco in queste sciocchezze della letteratura nera o della letteratura femminista. Queste sono etichette rifilate per dar vigore a qualche agenda politica».
Raccolgo tutte le mie forze per rivolgergli la domanda successiva. Che riguarda Roth. È su Roth. In molti dei suoi libri egli compare nelle vesti di scrittore, bambino o adulto. Ma poi c´è anche il suo alter ego, l´autore Nathan Zuckerman. Dove finisce il vero Philip Roth e dove inizia la letteratura? Il Philip Roth in carne e ossa mi fissa. Il suo sguardo è spazientito. Come se io fossi stupido.
«Non capisco questa domanda» dice. «Io non leggo né interpreto i libri in questo modo. Mi interessa l´argomento di cui trattano…la faccenda, la storia, la scossa estetica che si avverte una volta entrati in questa faccenda. Sono Roth o sono Zuckerman? Io sono tutti e due. Lo sa? É proprio questo che mi dico di solito: io sono tutto. Io sono nulla».
Il ghiaccio si rompe. Ho portato all´intervista copie de L´animale morente e La macchia umana – due suoi libri su altrettante relazioni tra un uomo anziano e una donna giovane. Perché questo tema lo interessa? «Perché esiste», dice. Gli racconto di uno scandalo che ha scosso la Danimarca: uno scrittore di 68 anni ha appena perduto ogni dignità. Il suo delitto è quello di aver scritto apertamente di una relazione sessuale avuta con una ragazza diciottenne di Haiti, la figlia del suo cameriere. La punizione che gli è toccata è una sorta di crocifissione pubblica, che può rivelarsi davvero incresciosa, persino nella progressiva Danimarca. Roth vuole sapere tutto di questa storia, ogni più piccolo dettaglio. Poi dice: «È lo scrittore ad aver voluto che le cose andassero così. Ha davvero descritto in che modo ha fatto sesso con la ragazza nella sua camera da letto matrimoniale? Sì? È interessante. La faccenda ha assunto un aspetto politico. Se si fosse trattato di una liaison con uno studente venticinquenne nell´università di Port-au-Prince non avrebbe creato problema alcuno».
Gli dico che intervistarlo può risultare estremamente difficile, come scalare un iceberg senza abiti indosso.
«Beh, non sono venuto su questa terra per renderle la vita facile. Ha!». La sua risata è come un proclama. Nessun sorriso, soltanto «Ha!».
Può darsi che non dovremmo affatto parlare di letteratura, replico.
«Ha, ha», dice. «Ora sì che dice bene! Sarebbe meraviglioso stabilire una moratoria di cento anni sulle discussioni letterarie, e se si chiudessero tutti i dipartimenti di letteratura, tutte le recensioni di libri, se i critici fossero messi al bando… si dovrebbero lasciare i lettori liberi di starsene in pace con i loro libri e se qualcuno osasse mai dire qualcosa in merito ad essi dovrebbe essere fucilato o sbattuto immediatamente in prigione. Sì, sì, fucilato. Una moratoria di cento anni per le insopportabili chiacchiere letterarie… Bisognerebbe lasciare la gente libera di confrontarsi per conto suo con i propri libri e riscoprire che cosa sono o non sono. Tutto, tranne che queste chiacchiere. Invenzioni. Non appena si generalizza si entra in un universo completamente estraneo a quello della letteratura, e tra i due non vi è collegamento alcuno».
Roth se ne va, torna reggendo una piccola copertina nera. È la copertina del suo nuovo libro. È completamente nera, con una sottile linea rossa che incornicia il titolo, Everyman. «Che cosa ne pensa? È stata approvata proprio oggi» dichiara.
Sembra quasi che abbia a che fare con la morte, rispondo.
«Sì, se desidera la morte, spende proprio bene i suoi soldi. Everyman è il nome di una serie di commedie inglesi del XV secolo, commedie allegoriche, opere morali. Avevano luogo nei cimiteri e il tema di ognuna di esse è la salvezza. Quella classica si intitola Everyman e risale al 1485, opera di un anonimo. Proprio a metà tra la morte di Chaucer e la nascita di Shakespeare. La morale è sempre la stessa: “Lavora sodo e andrai in paradiso”. Oppure: “Sii un buon cristiano o andrai all´inferno”. “Everyman” è il protagonista e riceve una visita dalla Morte. Pensa che sia una specie di messaggero, ma la Morte gli dice: “Io sono la morte” e la risposta di Everyman è il primo grande verso del teatro inglese: “Oh, Death, thou comest when I had thee least in mind”. “Oh, Morte, arrivi quando meno ti avevo in mente”…il mio nuovo libro è sulla morte e sul fatto che si deve morire. Beh, che cosa ne pensa?».
«È nero», dico, e gli chiedo se il suo editore non teme che la gente non lo acquisti proprio a causa del suo colore.
«Non mi interessa», ribatte, «io voglio che sia così».
Gli dico che pare quasi una bibbia. «Ha! Meraviglioso. Perfetto. Io invece penso che sembra una stele sepolcrale». Attende che io gli rivolga la prossima domanda.
Ha paura di morire?
Pensa a lungo prima di rispondere. Forse pensa ad altro. «Sì. Ho paura. È orribile». Poi aggiunge: «Che altro potrei dire? È straziante. È inconcepibile. È incredibile. Impossibile».
Pensa molto alla morte?
«Sono stato costretto a pensarci sempre mentre scrivevo questo libro. Ho trascorso due giorni interi al cimitero, per vedere in che modo scavano le fosse. Erano anni che avevo deciso di non pensare mai alla morte. Ovviamente ho visto morire della gente, i miei genitori, ma è stato soltanto quando un mio carissimo amico è morto nell´aprile scorso che ho vissuto questa esperienza totalmente devastante. Aveva la mia stessa età. Nel contratto che ho firmato non è prevista una cosa del genere. Non ho visto nessuna pagina del contratto che lo prevedesse, sa? Come disse Henry James sul suo letto di morte: “Ah, eccolo qui, il grande evento”».
È soddisfatto della sua vita?
«Otto anni fa ho preso parte alla cerimonia funebre di uno scrittore» risponde. «Era un uomo straordinario, pieno di vita, di allegria, di curiosità. Lavorava per una rivista di qui, di New York. Aveva ragazze, amanti… E alla sua cerimonia funebre c´erano tutte queste donne, di tutte le età…piangevano tutte e poi sono uscite, se ne sono andate perché non ce la facevano a tollerare quella perdita. Quello è stato il tributo più grande… ».
Che cosa faranno le donne al suo funerale?
«Se mai si faranno vedere…probabilmente strepiteranno accanto alla mia cassa da morto». Guarda fuori dalla finestra, al di là degli edifici di midtown. «Sa, la passione con l´età non cambia, eppure si cambia, si invecchia. La voglia di donne si fa più acuta. E c´è una potenza nel pathos del sesso che prima non c´era. Il pathos per il corpo femminile diventa più persistente. La passione sessuale è sempre profonda, ma lo diventa ancor più».
Lei ha appena detto di aver paura di morire. Ha 72 anni. Di che cosa ha paura?
Mi guarda. «Dell´oblio. Di non essere vivo, è semplice! Di non sentire la vita, non sentirne l´odore. La differenza che c´è tra oggi e la paura di morire che avevo quando avevo 12 anni è che ora provo una sorta di rassegnazione nei confronti della realtà. Non avverto più come una grande ingiustizia il fatto di dover morire».
Gli chiedo se è religioso. «Sono l´esatto contrario di una persona religiosa» mi dice. «Sono anti-religioso. Trovo detestabili le persone religiose. Aborro le falsità della religione. Sono tutte menzogne. Lei è religioso?» mi chiede.
«No» rispondo, «ma sono sicuro che la vita sarebbe più facile se lo fossi».
«Oh» dice, «non credo. Provo una tale forte insofferenza… non è che sono nevrotico, ma il miserabile passato della religione… non intendo neppure parlarne. Non sono interessato a parlare delle pecore di cui si parla in qualità di credenti. Quando scrivo sono solo. Sono traboccante di paura e solitudine e ansia, ma non ho mai avuto bisogno che la religione venisse in mio soccorso».
Gli chiedo perché ha continuato a scrivere, allora, se si sente così solo e pieno d´ansia. Lui sospira, ad alta voce.
«Ci sono alcuni giorni che ricompensano tutto ciò pienamente» mi dice. «Nel complesso in vita mia ho avuto un paio di mesi di questi meravigliosi giorni da scrittore, ed è sufficiente… In effetti è una buona domanda (a questo punto in gran segreto faccio grandi salti di gioia). Vede, quella di occuparsi di letteratura è una scelta, proprio come qualsiasi altra scelta. Subito però ci si identifica con una professione. E questo è il primo brutto colpo. Perché poi ci si cimenta nel corso dei decenni per fare il proprio lavoro sempre meglio, sempre diverso, facendolo e rifacendolo per dimostrare a se stessi di saperlo fare».
Ma lei ormai sa di saperlo fare, giusto?
«Non ne ho idea, non so se sono in grado di continuare a farlo. Come potrei saperlo? Come posso sapere che non mi mancheranno le idee, domani? È un´esistenza orribile quella dello scrittore che stenta a scrivere. A me non manca niente in particolare, ma mi manca la vita. Non ho capito tutto ciò nei primi venti anni, perché stavo sempre a combattere, ero a fare a pugni con la letteratura. Quello scontro era vita, ma poi ho scoperto di essere sul ring da solo».
Si alza in piedi. «Sono stati gli interessi che ho avuto nella vita e il tentativo di mettere per iscritto la vita sulle pagine ad avermi reso un scrittore. Poi però ho scoperto che da molti punti di vista sono fuori dalla vita».

© Guardian Newspapers Limited 2005
(Traduzione di Anna Bissanti)