Perché chiedere agli azionisti l’autorizzazione ad acquistare azioni proprie, fino al 10% del capitale sociale? Per investire bene i soldi dell’azienda, naturalmente. L’azienda è la Fiat, un ottimo affare, numeri alla mano: dimezzamento dell’indebitamento, utili in tutti i settori, l’automobile che torna a essere core business con 2 milioni di vetture vendute, 2,2 milioni previste nel 2007 e tre milioni nel 2010, di cui 1,8 milioni fabbricate in Italia. La multinazionale torinese ha infine una liquidità di 8 miliardi di euro e questo fa escludere emissioni di bond. Chi spiega agli azionisti i numeri e la ragione della richiesta di acquisto di azioni proprie è l’amministratore delegato Sergio Marchionne. Poi si sa che quel by-back servirà a mettere le stock option a disposizione dello stesso Marchionne. Che ha dimostrato di guadagnarsele tutte, visti i numeri del bilancio e dell’immagine del Lingotto. Resta un dubbio: l’obiettivo del capitalismo, nel terzo secolo dopo Cristo, è uno solo, fare gli interessi degli azionisti, almeno a parole. Perché i manager si sono conquistati parte importante del potere che tradizionalmente era del padrone, si fanno i propri interessi e poi chi s’è visto s’è visto. Non serve fare esempi. Pazienza per gli azionisti se le cose vanno, ma soprattutto pazienza per i lavoratori che sono ormai una pura variabile dipendente del capitale, dei mercati, delle conseguenze delle scelte di padroni e manager.
Nel 2006, però, alla Fiat le cose sono andate bene, non solo per i bilanci aziendali e del suo ad, ma anche per gli azionisti che dopo 6 anni di astinenza sono tornati a spartirsi un tesoretto pari a 275,6 milioni di euro, il 25% degli utili. Se le cose andranno come previsto, entro il 2010 entreranno nelle tasche degli azionisti 2 miliardi di euro, sempre rispettando la quota del 25% degli utili netti.
L’occupazione non ha subito flessioni ma neppure impennate proporzionali all’andamento del Lingotto: si è fermata una emorragia più che quinquennale (30 mila posti di lavoro perduti, quasi la metà in Italia) e si è prosciugata (quasi tutta, Arese esclusa) la cassa integrazione, sono ripartite con prudenza e molta flessibilità le assunzioni.
Fuori dalla sede storica della Fiat un gruppo di operai di Arese con le bandiere dei Cub ha mostrato un’altra faccia della medaglia, distribuendo un volantino con il disegno di Marchionne con tanto di aureola e la scritta: “Santo? Non possumus”. Arese protesta ancora, anche perché sembra essere l’unico stabilimento il cui futuro non esiste. Almeno nelle decisioni dell’azienda.
Maggiori le speranze degli operai di Termini Imerese, una fabbrica che potrebbe non solo sopravvivere ma essere rilanciata, magari imitando il modello polacco: un accordo con un concorrente internazionale per produrre un numero importante di vetture con i due marchi, e un sostegno pubblico (stato e regione Sicilia) per costruire un indotto locale e abbattere i costi infrastrutturali. Il modello polacco, si diceva: da Tychy sta per uscire l’ultima nata Fiat, la Cinquecento e anche la Ka targata Ford e motorizzata Fiat. Già oggi dallo stesso stabilimento polacco escono le Panda, anzi Torino ha dovuto bloccare la pubblicità (con l’immancabile Fiorello) di questo riuscito modello perché la domanda supera la possibilità di produzione, dovevano essere 200 mila l’anno, siamo già a 220 mila. Ne sanno qualcosa gli operai polacchi che sotto la guida di Solidarnosh stanno scioperando contro i temuti aumenti dei ritmi, cioè dello sfruttamento. E, aggiunge la Fiom, contro le pressioni dei capi a stracciare la tessera del sindacato. Le nuove relazioni industriali introdotte dall’era Marchionne, dicono in Polonia, «qui non sono arrivate».
Ma ieri, all’assemblea annuale – anticipata, così come il raggiungimento degli obiettivi di Marchionne – il clima era di dialogo. Anche Sergio Cusani, mai tenero con le scelte Fiat degli anni passati, ha riconosciuto i passi fatti dal nuovo Lingotto, cioè di aver puntato sull’auto. Avete fatto 30, fate 31 ha detto Cusani. Come? Istituendo un fondo di solidarietà per i lavoratori e rafforzando l’impegno nel settore dei motori ecologici. Difficile fare critiche quando in apertura della conferenza stampa post-assemblea, «santo Marchionne» si può permettere di esordire così: «Non ho cattive notizie da darvi». Effettivamente, dal suo punto di vista e del Lingotto l’ad non ha torto. Più interessante sarebbe sapere a che punto è il risanamento della Fiat intesa come gruppo dirigente storico, cioè come cultura industriale. Marchionne ha operato una netta frattura con le tradizioni sabaudo-monarchiche targate Agnelli, ma resistono sacche di resistenza di chi pensa che la fedeltà venga prima di tutto, prima della qualità. Solo le new entry riescono a sopportare il ritmo impresso alla corsa. Una corsa che ha per traguardo il 2010, quando Fiat dovrebbe avere il 35% del mercato italiano dell’auto e almeno l’11% di quello europeo.