Occupazione che sale, tasso di disoccupazione ai minimi storici dal 1992, forza lavoro in crescita. Quali segnali trarne, alla conclusione di un anno che ha visto l’economia italiana dar qualche buon segnale. «Ripresina», scriveva il Censis. Chiediamo al professor Gallino, sociologo del lavoro, di aiutarci a comprendere il senso dei numeri, se possiamo illuderci che siano queste le premesse di un anno ancora più favorevole. Il professor Gallino mette in guardia: attenzione, quei dati non possono dire se si lavora di più e se la qualità del lavoro è migliorata. E sono troppo parziali, ancora.
Professor Gallino, allora dobbiamo rinfoderare l’entusiasmo?
«Ogni voce che segni un incremento degli occupati va accolta in modo positivo. Ma si dovrebbe intanto ricordare che si tratta comunque di una rilevazione a campione, di attendibilità quindi non assoluta, e si dovrebbe poi distinguere tra il numero degli occupati e le ore effettivamente lavorate. Premesso questo va tutto bene, ma si dovrebbe poter distinguere tra il numero degli occupati e le ore effettivamente lavorate. Per capire quali peso abbiano dentro questo universo in movimento le infinite forme di lavoro parziale e a termine…».
Confermano i numeri: rispetto a un anno fa aumenta l’occupazione temporanea (oltre il dieci per cento), aumenta l’occupazione a tempo parziale (più del sette per cento). Quasi la metà dei nuovi posti di lavoro è a termine…
«Insomma si deve dedurre che più italiani lavorano e che però si lavora un po’ meno. E probabilmente un po’ peggio. Con un’ulteriore complicazione, perchè l’Istat distingue tra lavoratori dipendenti e lavoratori indipendenti. Queste sono le due grandi classi. Se nei lavoratori indipendenti compaiono co.co.co., lavoratori a progetto o figure simili, poco importa: sono autonomi. Punto e basta. Se dunque i nostri autonomi sono in realtà co.co.co. del pubblico impiego poco importa. Rientrano tutti nella massa degli autonomi. Insomma, quello è certo soprattutto l’incremento del lavoro a termine, è certa una ormai sempre più appariscente rivoluzione del mercato del lavoro…».
Ancora a causa di un’economia dalla salute incerta?
«Questo come conseguenza di una legislazione che lo consente e non da ieri. Non è solo colpa insomma della legge 30. la famosa legge Biagi. La legislazione lo permette almeno dal 1997, quando il pacchetto Treu introdusse varie figure di atipici… Le imprese hanno imparato ad assumere nel modo che più conviene. Hanno ormai assimilato un modello che si è affermato in tutto il mondo: il lavoratore lo si assume quando interessa assumerlo, cioè nei momenti in cui si prevede di dover produrre di più. Poi lo si lascia a casa, senza neppure doverlo licenziare, semplicemente non rinnovando un contratto».
Un modello in cui il trend positivo dell’impresa va a braccetto proprio con la precarietà?
«Il modello proposto è quello. Non è detto che funzioni sempre. Il fatto che gli occupati aumentino è positivo, che aumentino quelli a termine non direi: introduce elementi di precarietà anche nella società, famiglie e comunità prossima. Pesa sull’economia in generale: quale precario si azzarda a investire su beni di consumo durevoli. La casa, ad esempio. Insomma il precario non compra o compra molto meno».
La legge finanziaria è giunta finalmente alla conclusione del suo lungo cammino. Resta dell’idea di un marchingegno troppo complicato?
«Certo. Troppo complicata, troppo difficile orientarsi tra tutti quei commi. Con il rischio di sorprese. Di qualcuna si è già letto. Dovrò passarci tre notti almeno per capire qualche cosa di più. Per ora l’impressione è della dispersione: si mette qualcosa a coprire una infinità di cose, un pochino per tutto, mentre probabilmente erano preferibili scelte più decise, era preferibile un passo più marcato verso pochi obiettivi e più consistenti».