Ipocrita l’attacco ai Ds e a Fassino: la compromissione con gli interessi del padronato riguarda quasi tutti i partiti, l'”arco costituzionale liberista”. Che accordo di governo si potrà mai fare con chi si divide tra Montezemolo e Consorte, tra Bazoli e Fiorani?
C’è molta ipocrisia nell’attacco che viene portato in questi giorni ai Ds e a Piero Fassino. Sì, perché nella evidente commistione tra la Quercia e l’Opa portata da Unipol a Bnl – commistione ammessa dallo stesso Fassino in un’intervista al Corriere della Sera e in una lettera a Repubblica – vengono oscurati tutti gli altri intrecci e legami che esistono tra settori consistenti dell’Unione e centri importanti del capitalismo italiano. Così Francesco Rutelli, sempre dal Corriere della Sera, si può permettere di dare lezioni di stile e di etica all’alleato dopo aver costruito un rapporto privilegiato con il cosiddetto salotto buono della borghesia italiana a cominciare dal presidente di Confindustria che ha fatto una sorta di dichiarazione di voto a favore della Margherita. E lo stesso Parisi, che per primo ha lanciato l’allarme sulla “questione morale” lo fa dall’alto di una postazione, l’ulivismo prodiano, che esiste in quanto legata a un rapporto di ferro con una parte del capitalismo italiano a cominciare dal presidente di Banca Intesa, Bazoli, da molti considerato il vero ispiratore della politica economica di Romano Prodi.
Certo, i Ds hanno voluto giocare d’azzardo, appoggiando – non senza divisioni interne – un’operazione spregiudicata che punta a far saltare gli equilibri della borghesia nazionale senza preoccuparsi troppo delle compagnie che si sono trovati accanto, i vari Ricucci, Fiorani e Gnutti, per intendersi. Ma solo una sconsiderata suddivisione tra capitalismo “buono” e capitalismo “cattivo” può permettere di dare lezioni di morale ai Democratici di sinistra. Risiede qui il nocciolo del problema la cui individuazione consente di definire meglio la natura dei giocatori in campo, le prospettive del centrosinistra e il ruolo di una sinistra di alternativa.
“Buoni” e “cattivi”
L’illusione della falsa distinzione tra “buoni” e “cattivi” nel capitalismo italiano ha accecato la sinistra quando questa era ancora rappresentata dal Pci. Oggi il nodo viene riproposto, questa volta contro i suoi eredi. Sono i Parisi e i Rutelli, con Prodi sullo sfondo, a indicare quali siano i capitalisti buoni, quelli con i quali è possibile avere rapporti politici, e quali i “cattivi”, portatori di una visione negativa e retriva dello sviluppo. Solo che nella parte dei “buoni” si annoverano coloro che hanno contribuito attivamente alla devastazione sociale e alla crisi verticale dello stesso capitalismo italiano che certo non dipende dall’azione di Ricucci e soci.
Sono forse buoni i Carlo De Benedetti che hanno disintegrato e chiuso l’Olivetti e che annunciano un’iniziativa in comune con Berlusconi dalla quale guadagnano in una settimana circa mezzo milione di euro? I Tronchetti Provera che hanno generato con Pirelli un impero immobiliare al cospetto del quale Ricucci impallidisce e che con quattro soldi hanno messo le mani su Telecom ricavandone un monopolio privato e protetto dal pubblico? Sono buoni i grandi gruppi bancari che hanno coperto gli scandali Cirio e Parmalat o i titoli argentini e che scaricano sui risparmiatori i costi di quell’impresa? E’ buono il Montezemolo che sta portando a compimento, nel silenzio, la definitiva ristrutturazione della Fiat – a proposito, che ne è delle voci di Opa di cui Consorte chiede a Fassino? – e che punta fortemente a una nuova concertazione sociale basata sulla liquidazione della contrattazione nazionale? O, ancora, è buono il fronte che ha gestito Bnl rilevandola dalle mani pubbliche nel 1998 e portandola oggi in una condizione di forte disavanzo e squilibrio contabile?
Se la lezione a Fassino viene fatta in nome di queste alleanze, diventa comprensibile la sua reazione stizzita anche se il segretario della Quercia non fa che confermare quello che sospettavamo: la mutazione genetica del suo partito che punta a rappresentare direttamente una quota del capitalismo italiano non solo sullo scenario italiano ma anche su quello europeo accordando a quello i bisogni dei lavoratori.
In realtà il dibattito sulla questione morale nasconde il vero nodo di questa fase e cioè la compromissione di quasi tutti i partiti, “l’arco costituzionale liberista”, con gli interessi di classe del padronato. La questione morale affonda in una politica che vede come dirimenti solo gli interessi forti e che a essi affida la salvezza del Paese. Ma qui occorre alzare il velo dagli occhi e accettare questa definizione non solo per le destre ma anche, forse soprattutto, per il centrosinistra. La vicenda in corso mostra che a rappresentare nel miglior modo il capitalismo italiano con tutti i suoi addentellati europei, c’è l’Unione di Prodi, la sola che garantisca la serietà, la lungimiranza e la fedeltà a un processo di sviluppo che invece il governo Berlusconi ha mancato clamorosamente.
La nostra questione morale
Questa è la vera questione morale da affrontare per un partito, come il nostro, che rimane “moralmente compromesso” con gli interessi dei lavoratori, di un’altra classe sociale e di un’altra prospettiva di società. Che accordo di governo si potrà mai fare con chi si divide tra Montezemolo e Consorte, tra Bazoli e Fiorani? Non è ora di considerare criticamente certe scelte che invece, anche con lo svolgimento delle primarie, stiamo rendendo irreversibili? Non è ora per Rifondazione comunista di riprendersi l’autonomia e il proprio spazio di manovra giudicando il resto del centrosinistra solo per le proposte concrete che metterà in campo? E invece di incaponirsi in una competizione per le primarie che incentiva in modo smisurato, a tratti inaccettabile, il leaderismo, non è meglio fare una discussione a tutto campo sul programma, sull’iniziativa sociale da intraprendere, sulla necessaria dose di anticapitalismo che la società italiana, troppo intrisa dei vari Ricucci, richiederebbe?
Qui si posiziona la questione della sinistra alternativa che sta animando il dibattito estivo sia su queste pagine che su quelle del manifesto. Per come è stato posto finora il dibattito non ha molto senso, semplicemente perché propone ricette apparentemente diverse – la lista Arcobaleno di Pecoraro Scanio e Diliberto, le primarie di Fausto Bertinotti – all’interno dello stesso quadro politico e della stessa prospettiva: accumulare forze per contrattare peso e spazio nell’Unione contro lo schieramento moderato di Ds e Margherita. Si tratta di un dilemma poco avvincente e che non consente di spostare significativamente i fattori in campo ma solo di rendere “meno peggio” il programma dell’Unione. Per qualcuno sarà un risultato importante, a noi sembra un’opzione riduttiva.
Se l’analisi di cui sopra è corretta, la crisi italiana e internazionale richiede un sovrappiù di anticapitalismo, ci si passi il termine d’antan, cioè un di più di ricette e programmi che incrinino l’attuale modo di produzione e ne mettano in luce l’inadeguatezza storica. Per fare questo serve una sinistra alternativa che non sia compromessa in nessun modo – e quindi non pensi di gestire un piano di governo – con forze della sinistra moderata che al contrario puntano a salvare gli interessi del capitalismo in crisi. Serve un’autonomia cristallina, una dimensione qualitativa e quantitativa che punti a strappare a quelle forze l’egemonia sociale – che pure ancora detengono – e a candidarsi per una prospettiva di governo in chiave anticapitalista.
Sappiamo che non è facile e che il percorso è arduo: su scala mondiale solo il Venezuela di Chavez sta forse marciando in quella direzione ma se non si danno indicazioni nette la strada non sarà mai intrapresa. La sinistra alternativa, quindi, o è anticapitalista o non è; o è fuori dall’Unione o è una variante di essa. In questo senso non può proporsi di governare con le attuali forze del centrosinistra: può farci accordi mirati, tecnici o politici in chiave elettorale, ma il governo è questione che comprometterebbe seriamente l’intero percorso. Del resto basta fare alcuni esempi. Al di là delle dimissioni di Fazio – che ci paiono doverose e sulle quali il nostro partito dovrebbe superare esitazioni e cautele – la vicenda delle intercettazioni mostra il fallimento della concezione liberista della banca centrale, resa indipendente, cioè legata al mercato, e svincolata da qualsiasi controllo pubblico. Non è ora di ripensare drasticamente a questa scelta e di sottoporre il governatore al controllo del parlamento? E ancora, la Bnl privatizzata non indica il fallimento di un’operazione, voluta dal governo Amato, in cui il capitale pubblico fuoriusciva dalle banche per migliorarne efficienza e trasparenza? Suona scandalo una Bnl che ritorni pubblica, gestita in maniera trasparente con il concorso partecipato di lavoratori e risparmiatori? Una grande struttura di interesse nazionale, sul serio, che insieme ad altri grandi gangli – Poste, Enel, Eni, Ferrovie, telefonia, informatica, cantieristica – conferisca al paese un controllo sulle proprie risorse? Sapendo che quando parliamo di intervento pubblico va messa radicalmente in discussione la concezione stessa di Authority che si propone come ente di controllo di un mercato totalmente liberalizzato. Oppure, non va pensata una politica di tassazione delle rendite (a proposito, che fine ha fatto la Tobin tax?) in cui queste siano individuate anche negli enormi profitti realizzati dalle aziende italiane nel 2004 (qualcuno si è accorto del rapporto Mediobanca che segnala un incremento di circa il 100%?).
Stiamo parlando di misure minime non di un programma rivoluzionario. Qualcuno pensa che su questi temi ci siano compatibilità con chi vuole liberalizzare ulteriormente il mercato italiano, costruire regole europee, come dice Fassino, e garanzie ai vari settori capitalistici? In realtà questo livello della discussione è impedito con le forze riformiste e non esiste ancora nella sinistra alternativa.
Un nuovo slancio?
La situazione, del resto, è il frutto di un’occasione persa. La sinistra alternativa ha conosciuto il suo momento ottimale in quel periodo che va dalle giornate di Genova al referendum sull’articolo 18 nel quale si erano costruite le condizioni per un raggruppamento di tipo nuovo fra forze politiche, sindacali, associative, di movimento. Il periodo in cui andava osato e non abbiamo osato; in cui si attendeva un cenno e dal quale è invece scaturita la prospettiva, tuttora in corso, della grande alleanza democratica, oramai Unione. L’impasse attuale è in larga parte generata dalle scelte che ha compiuto il nostro partito.
Una sinistra alternativa degna di questo nome – alternativa nella visione di società – non può che costituirsi in funzione di un programma adeguato alla crisi e di un’iniziativa sociale coerente.
Oggi, ad esempio, andrebbe messa in agenda non già uno stantio dibattito parlamentare sullo stato del capitalismo quanto una multiforme vertenza sociale che a partire dallo spettacolo indecoroso offerto dalle varie Opa rimetta al centro la questione dell’intervento pubblico, dei diritti, del salario, dello stato sociale. Una vertenza da agire nei luoghi di lavoro con forme di coordinamento mirate ma anche su scala generale con una manifestazione nazionale da realizzare in autunno in cui porre anche il tema del voto anticipato, come proposto dal manifesto. Se vuole esistere sul serio, parlare al cuore dei movimenti sociali e non solo alla tekné della politica, la sinistra alternativa dovrebbe ripartire da qui.