“Puoi non vedere ancora nulla in superficie ma sottoterra il fuoco divampa”: sono queste le parole di uno scrittore indonesiano, Y. B. Mangunwijaya, con le quali si apre il best seller di Naomi Klein “No logo”. Le cito non soltanto perchè fanno parte di un testo che è entrato fulmineamente nell’immaginario collettivo no global, a riprova dell’intensità dei processi di soggettivazione critica che sono oggi in atto, ma perchè ben suggeriscono – quelle parole – l’obbligo di andare a fondo, scavare, non lasciarsi ingannare né dalle apparenze né dagli stereotipi che il potere mediatico va costruendo su e intorno alle mobilitazioni contro la globalizzazione.
Anche il dibattito che si è aperto in Rifondazione comunista su questo tema soffre spesso del riferimento a stereotipi pregressi, a schemi di interpretazione che non interpretano ormai più nulla, a vere e proprie banalità epistemologiche.
Mi sembra particolarmente stucchevole, per esempio, il dubbio che affanna alcuni circa la natura e il carattere del movimento: è abbastanza anticapitalistico? L’antiliberismo può condurre all’anticapitalismo? E tutto questo può accadere senza una buona dose di “egemonia” comunista? Come se l’anticapitalismo fosse una dote dello spirito e non invece una faticosa costruzione storico-sociale di interpretazione analitica, di proposta strategica, di soggettività politica; e l’egemonia comunista si riducesse a qualche predicozzo improvvisato del partito nelle sedi di movimento e non richiedesse invece – e in primis – la verifica della nostra capacità di essere nelle cose, capendo dove siamo e che cosa vogliamo fare, oggi, del nostro essere comunisti. E altrettanto stucchevole mi appare l’apodittica e reiterata dichiarazione sulla necessità di porre la centralità del rapporto capitale lavoro come cartina di tornasole per misurare i quarti di nobiltà del movimento stesso. Quella centralità è nelle cose, innerva e sostanzia i rapporti sociali su scala planetaria, muove grandi fenomeni della contemporaneità, come la spinta alla migrazione e all’esodo infinito di donne e uomini; ed è alla base di condizioni di sfruttamento inimmaginabili fino a ieri, che imprigionano in vaste regioni del mondo corpi bambini e giovani corpi di donne, condannate a stare dentro una catena planetaria di produzione, senza diritti, regole, tutele. Condizioni che si riproducono incessantemente anche da noi e aggrediscono alla radice conquiste fondamentali che il movimento operaio guadagnò al lavoro. Che tutto questo sia una delle ragioni alla base del movimento di resistenza e opposizione alla globalizzazione è difficile negarlo. Ma oggi si tratta di leggere tutto, e dunque anche la realtà di classe, con lenti adeguate, individuando anche in quella realtà i nuovi processi di presa di coscienza e di costruzione soggettiva, che ben difficilmente possono riprodurre i sentieri di ieri.
Più significativo, per esempio, della già significativa partecipazione della Fiom alle giornate di Genova, è il documento con cui questo straordinario settore sindacale rivendica le sue scelte, spiegando la consonanza che al suo interno si registra con molte delle istanze dei giovani e delle giovani no global. Non male come capacità politica “di classe” di stare nelle cose!
Nuovi processi
Sommamente stucchevole mi sembra anche tutto il corollario di sciocchezze che si vanno imbastendo, per scritto e per orale, sulla impellente – per alcuni – necessità dopo Genova dei servizi d’ordine da predisporre a protezione delle manifestazioni: risvolto speculare – sia pure ovviamente originato da preoccupazioni del tutto opposte – del tentativo di ridurre le mobilitazioni no global a un problema di ordine pubblico. A Genova, ma già a Napoli, sia pure su scala molto ridotta, l’esercizio della forza da parte delle autorità pubbliche è avvenuta con un tale livello di violenza repressiva e di illegalità formale e sostanziale – in una condizione cioè di totale sospensione delle garanzie costituzionali di cittadinanza – che se la risposta dovesse essere affidata ai servizi d’ordine ci sarebbe soltanto da rinunciare a scendere in piazza.
Per favore, partiamo d’altro.
“Il fuoco che già divampa sotterra”, per riprendere la metafora iniziale, è costituito dal coacervo di contraddizioni, radicali e violente, che i processi di globalizzazione hanno accumulato negli ultimi vent’anni. Con ritmo crescente e dimensione planetaria. E’ così successo che in un’epoca che si voleva caratterizzata dalla fine della storia, dal tramonto delle ideologie e della critica sociale, dall’avvento del pensiero unico a sostegno del mercato globale, si sono moltiplicate la cause della sofferenza sociale, del disagio della vita quotidiana, della insostenibilità, materiale e simbolica, dello sviluppo capitalistico. E hanno preso corpo nuovi processi di soggettivazione critica, nuove forme di resistenza e di opposizione all ‘ordine delle cose esistente. E anche di ribellione violenta. La globalizzazione, nella materialità del suo farsi, mostra ogni giorno di più le crepe della propria edificazione, le contraddizioni su cui si poggiano le sue fondamenta. Contraddizioni che producono esse stesse i luoghi, le occasioni i soggetti della resistenza e della (potenziale) alternativa. I summit e l’esplosione dei contro-summit, il capitale-immateriale e l’agorà telematico di quante e quanti oppongono resistenza, l’escalation tecnologica dei poteri globali e il tam tam cellulare del movimento. Così da Seattle in poi il movimento appare inarrestabile. Ma già prima, per tutti gli anni novanta, il fuoco è divampato sotterra, in parte alimentato da una crescente presa di coscienza di larghi settori femminili della società, nei Paesi del Nord opulento ma soprattutto nel Sud del mondo. Non ci stancheremo di far riferimento ai grandi appuntamenti internazionali che hanno visto le donne protagoniste della critica alla globalizzazione, a partire dalla Conferenza di Pechino.
Poteri globali sempre più disincantati, sempre più sterilizzati nel loro rapporto politico-istituzionale, materiale, fisico col corpo sociale, col popolo (non più o sempre meno) sovrano; e di nuovo invece quel corpo che invade le piazze e vuole un nuovo spazio pubblico di autorappresentazione, negoziazione, autoistituzionalizzazione. Porto Alegre, per esempio e la stessa esperienza del Genoa Social Forum, esperienza quest’ultima assai feconda e assai diversa da una pura e semplice attività di movimento.
Ma la parola movimento non dice nulla, anzi decisamente trae in inganno, autorizza le tentazioni definitorie che così grandemente assillano molti, ci porta lontano dalla necessità di fare i conti e misurarci con il carattere strutturalmente composito, complesso, contraddittorio dei processi e con i problemi sempre nuovi che ci troveremo di fronte. Naomi Klein parla di “movimento dei movimenti”. Fausto Bertinotti ha parlato di “popoli di Seattle”. Mi sembrano le approssimazioni giuste da cui partire. In particolare la seconda perché dice l’aspetto centrale su cui ragionare. Siamo di fronte a un processo complesso e complicato, alimentato dalla convergenza di contraddizioni, tensioni, interrogativi, bisogni diversissimi, spesso tra loro assai lontani e che la lontananza rende per lo più opachi e indecifrabili.
Mille frammenti sociali
I soggetti e le soggettività più diverse se ne fanno protagoniste, portandovi dentro percorsi ed esperienze fino a ieri sconosciute le une alle altre. Mille frammenti sociali, dispersi nelle nicchie della globalizzazione, non vogliono più essere afasica e autistica espressione di una nicchia, cercano la strada della lotta e, anche, spesso, di un orizzonte di senso, in questo presente che il capitale globale vuole del tutto privato di senso, tutto sussunto nella pervasività cannibalesca del mercato. Essi ritrovano, questi frammenti, nel “movimento”: grande alveo potenzialmente unificante. Questo è oggi la resistenza alla globalizzazione. Il movimento dunque, più che un soggetto, è un contenitore, un’occasione di autorappresentazione di soggetti, percorsi, istanze. Questa è la sua forza straordinaria. Ma anche la sua debolezza interna ed intrinseca. Ci sta di tutto, nel contenitore, le culture più diverse, le spinte più divaricanti. Compreso, lo ripeto, il grumo nero del ribellismo violento del violentismo politico, su cui il controvertice femminista del 15 e 16 giugno, “Punto G: genere e globalizzazione”, si è radicalmente misurato, aprendo una discussione che anche nel movimento delle donne è soltanto all’inizio. Per questo stare nel movimento non può che significare il sottrarsi radicalmente a qualsiasi fusionalità indistinta e invece lo stare insieme di soggetti che confrontano in maniera trasparente e radicale i propri punti di vista, costruiscono insieme – se e fin dove è possibile – percorsi, esperienze, strategie. Possibilmente vincenti, il meno possibile soccombenti. Genova costituisce una sorta di spartiacque periodizzante nella fase che viviamo, nel senso che ha avuto la forza di segnare una cesura di qualità nel processo economico che il capitalismo, con l’avvento della globalizzazione, aveva inaugurato o tentato di inaugurare; e ha avuto la forza di rappresentare un punto di non ritorno nell’irrompere sulla scena pubblica dei grandi problemi eco-umani e sociali che la mondializzazione produce. Ma la cesura è avvenuta anche sul terreno dello scontro politico con i poteri globali e dunque sulla qualità delle strategie di resistenza e di costruzione dell’alternativa. Strategia di annientamento materiale e simbolico del movimento no global: è questo il contesto dentro il quale leggere la violenza poliziesca che abbiamo visto in opera a Genova. la militarizzazione estrema del territorio, come risposta alla contestazione del movimento, non è casuale: è la conseguenza dello spirito, della logica, della strumentazione di guerra che accompagnano la globalizzazione e i poteri globali.
No ai rituali di guerra
Simulare la guerra e schiacciare l’immagine del movimento, nella reiterazione all’infinito degli scontri di piazza, su un set mediatico da guerre stellari: anche questo modo di tornare su Genova da parte della maggior parte dei media fa parte del gioco di annientamento del movimento. Occorre allora sfuggire radicalmente a questo gioco, sottrarsi e riposizionarsi continuamente, per far emergere la vera posta in gioco, l’unica che ci interessa: la riappropriazione cioè delle scelte decisive sulla vita del pianeta e dell’umanità. Ma sfuggire significa anche una radicale decostruzione critica di quella spinta ai rituali di guerra che sono antropologicamente fondativi della nostra cultura, che alimentano la storia sociale, le pratiche politiche, le stesse utopie del cambiamento. Nefaste sempre, oggi micidiali, perchè foriere di involuzioni autodistruttive e di dispersione di quelle straordinarie potenzialità di lotta, emancipazione e liberazione umana che vediamo dispiegarsi nelle nuove generazioni, la scommessa vera è una partecipazione sempre più larga, un nuovo processo di soggettivazione critica e consapevole, un’azione efficace di cittadinanza attiva che costruisca, nella mobilitazione consapevole e condivisa di donne e di uomini, un nuovo spazio pubblico, nuove istanze e nuove modalità di democrazia, nuovi processi di decisionalità dal basso mostrando la capacità dei soggetti di moltiplicare sul territorio la critica e la ricerca alternativa al dominio del mercato, all’ossessione dei modelli di vita imposti, al degrado umano che li accompagna. Dopo Genova tutto questo è più chiaro e non c’è più l’innocenza della protesta.
* Deputata Prc