Non c’è pace senza pianificazione energetica

Se vuoi la pace pianifica i consumi energetici. Si potrebbe sintetizzare così, parafrasando e rovesciando l’antico detto imperiale, il risvolto geopolitico della moratoria sulla costruzione dei nuovi impianti. Cosa c’entra la lotta contro gli avveniristici rigassificatori galleggianti o quella contro il recupero di tecnologie scandalosamente vecchie come il carbone con l’attuale situazione internazionale è presto detto. Da una parte c’è il percorso classico che vede nell’aumento della domanda un’occasione di crescita economica da abbracciare aumentando l’offerta a costi, se possibile, sempre più competitivi. Dall’altra c’è la strada che passa attraverso un piano energetico nazionale che valuti gli effettivi bisogni e intervenga per ridurre la domanda utilizzando in primo luogo risparmio ed efficienza energetica, un “giacimento nascosto” che, secondo gli esperti, potrebbe coprire fra il 30 e il 40 per cento dei consumi.
La prima strada, ben più organica alla finanziarizzazione dell’economia che bada più alle quotazioni in borsa che allo sviluppo complessivo di un paese, non ha solo il difetto di far ricadere i costi sanitari e ambientali sulle comunità locali ma ha anche lo svantaggio di incrementare quelle stesse emissioni che, firmando il protocollo di Kyoto, ci siamo impegnati a ridurre. Ma soprattutto è la strada che porta dritto alla destabilizzazione internazionale. Per evitare che il pacifismo sia soltanto un’affermazione di principio bisogna essere molto chiari su questo punto: la ricerca del gas o del petrolio al prezzo più basso potrà forse rendere l’Italia un importante snodo per la commercializzazione dell’energia, ma porta dritto alla guerra. Le guerre a bassa intensità che i mercenari pagati dalle compagnie occidentali stanno conducendo per difendere i giacimenti dalla rabbia delle comunità locali, che appunto contestano l’esiguità del prezzo da noi pagato di fronte ai danni ambientali e sociali, e le guerre ad alta, altissima intensità, che potrebbero scoppiare fra le grandi potenze incapaci di diminuire la propria dipendenza dalle fonti fossili. Nel frattempo, come inevitabile corollario, abbiamo le truppe schierate intorno ai pozzi: ragazzi mandati a morire, come scriveva un pacifista statunitense, «per difendere il diritto di congelare anche d’estate».

Che i due modelli non siano sovrapponibili l’ha capito molto bene Cheney quando, prima di fare il vice-presidente, dirigeva una compagnia petrolifera. In un discorso tenuto all’International Petroleum Institute di Londra nel 1999, il boss dell’Halliburton fu estremamente chiaro: «La domanda mondiale sta salendo con una media del 2 per cento l’anno, mentre la produzione cala del 3 per cento». Nel 2010, calcolava Cheney, serviranno 50 milioni di barili in più al giorno e se gli Stati Uniti non vogliono modificare il proprio stile di vita devono utilizzare la supremazia militare per procurarseli. La dottrina Cheney, poi incarnata dalla strategia Bush, è la difesa a oltranza del modello americano (il 5 per cento della popolazione mondiale che consuma il 25 per cento dell’energia) attraverso la proiezione militare in tutte le zone ricche di giacimenti o di oleodotti. Il fatto che dopo avere liquidato gli Stati canaglia questa strategia porti dritta al conflitto con alleati storici come l’Europa o il Giappone, non sembra spaventare la Casa bianca.

Con queste premesse non è una sorpresa che Francia, Germania e Russia nella primavera del 2003 abbiano avversato l’attacco all’Iraq. In modo ancora più specifico, anche se in netto contrasto con il vento liberista che spira a Bruxelles, buona parte dei paesi europei persegue una strategia di riduzione della domanda e quindi della dipendenza dal petrolio (e dal gas) di guerra. Berlusconi ha costretto l’Italia a sposare la dottrina Cheney mandando le truppe a guardia del “nostro” giacimento. Se il nuovo governo vuole davvero sganciarsi da questa avventura non può delegare la partita energetica alla mano invisibile del mercato.