Noi siamo sorpresi

Ad un mese e mezzo dal voto parlamentare che ha rifinanziato la missione in Afghanistan – e all’indomani di una pioggia di attentati che ha investito anche il contingente militare italiano – l’editoriale di Tommaso Di Francesco ripropone opportunamente domande la cui risposta era sin da allora del tutto chiara. Ma ormai nessuno ha più il coraggio di disquisire sulla natura di questa missione: la verità è – oggi come ieri – sotto gli occhi di tutti.
(redazionale)

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Chi s’interrogava in modo «kabulista» e chi in maniera intelligente se era mai possibile che il governo di centrosinistra cadesse su Kabul, ha di che riflettere. Ieri due avvenimenti hanno illuminato le troppe zone d’ombra abusate per l’ultimo rifinanziamento della missione ormai più che bipartisan. E’ stata attaccata la superblindata ambasciata americana a Kabul con molte vittime tra i marines e tra i civili afghani, e un ordigno è esploso contro un convoglio militare italiano nella provincia di Farah. Altro che dopoguerra. Gli attacchi purtroppo danno il segno di una precipitazione di eventi che era facile intravvedere ma che veniva oscurata nelle sedi istituzional-governative da una fitta cortina di «fumo afghano». L’attentato anti-Usa conferma una preoccupante ripresa di controllo del territorio da parte dei talebani che dice che la forza degli integralisti islamici non è solo militare ma politica e sociale, dopo tanti «aiuti» e tanti bombardamenti occidentali. L’agguato agli italiani vede i nostri soldati in pieno campo di battaglia come truppe speciali: i quattro soldati feriti sono incursori di marina.
La Farnesina e il ministro Parisi devono una spiegazione chiara. Le risposte ufficiali sono raggelanti. Il ministro Rutelli dichiara: «Impossibile il ritiro delle nostre truppe», lo stesso Parisi ha pensato bene di dire: «Non sono sorpreso». Stupefacente poi l’affermazione del capo dello stato Napolitano: «Il rischio fa parte della missione».
Alcune domande sono più che legittime. Che cosa differenzia ormai la guerra afghana da quella in Iraq dalla quale ci stiamo ritirando? Non siamo sempre nella linea di comando statunitense, sotto la Nato? Non siamo forse attivi in combattimento con le truppe speciali e, forse, ben lontano dalla «nostra zona»? Non era stato detto al momento del voto sul rifinanziamento, nemmeno un mese e mezzo fa, che nulla sarebbe cambiato? E invece risulta che i militari italiani sono aumentati di 600 unità e soprattutto che è cambiata la struttura originaria della missione Isaf. Già il 6 agosto la brigata multinazionale Kabul di cui fanno parte le forze italiane ha assunto la denominazione di «comando regionale della capitale», con un cambio di ruolo, perché ora l’Isaf è basata su comandi regionali e può inviare truppe soprattutto speciali – anche italiane – dove vuole. Insomma non c’è più una distinzione tra l’area di Kabul e il «fuoriarea», come aveva rassicurato Parisi. Ora Kabul – l’unico luogo realmente controllato dal signore della guerra Hamid Karzai – fa parte dell’intera struttura della Nato e non è un caso che la guerra con gli attacchi antiamericani ritorni proprio a Kabul.
Siamo ancora in tempo ad uscire da una guerra sanguinosa anche per noi: solo nel dicembre scorso hanno trovato la morte due soldati italiani. E dove i rovesci militari per le truppe britanniche – «peggio delle Falkland» scrive The Guardian – sono uno dei motivi delle difficoltà di Tony Blair. La prima guerra dove Bush ha cominciato a dissipare il consenso che aveva dopo l’11 settembre 2001. E’ stato il primo conflitto «preventivo», ma è apparso subito come guerra di vendetta – con tanti effetti collaterali e stragi contro i civili.
Come scriveva su Le Monde ieri George Soros, non proprio un estremista, «il concetto americano-israeliano di guerra contro il terrorismo» è fallito, «va tenuto conto che sul terreno sono cresciute realtà sociali e politiche e nuove possibilità di dialogo tra le parti». Vale anche per l’Afghanistan.