Noi non vogliamo mollare. E voi?

«Quanto siete disposti a cedere in nome del governo? Quanto siete disposti a cambiare? Quanto siete già cambiati?”
Sono queste, grossomodo, le domande che hanno circondato l’azione politica del mio partito nel corso degli ultimi eventi. Domande che ci hanno interrogato da più parti: dalle pagine dei giornali, borghesi o radicali, come dalle singole voci dei militanti o dei tanti uomini e donne che abbiamo incontrato all’indomani del trauma simbolico e concreto dell’interruzione, o meglio, della strana crisi del secondo governo Prodi. Domande che hanno tradotto la volontà diffusa di esorcizzare un dato di realtà, facendo addirittura smarrire o, come nell’articolo di Ida Dominijanni sul Manifesto di sabato scorso, lasciando sullo sfondo la materialità del passaggio di fronte al quale ci troviamo.
Il secondo governo Prodi si è formato in virtù di due condizioni essenziali: ha raccolto il diffuso sentimento contro Berlusconi e le destre; ha provato ad interpretare le domande e le esperienze di differenti soggettività manifestatesi nella lunga stagione dei movimenti, passando attraverso le primarie e raccontandosi nelle quasi trecento pagine del programma dell’Unione. Ecco, credo, se non ci fosse stata la seconda condizione il solo antiberlusconismo non avrebbe retto l’urto delle urne, il precario equilibrio numerico che, fin dai dati elettorali (al senato la Cdl ha preso più voti dell’Unione e solo grazie alla legge elettorale si è verificato uno stretto margine di vantaggio in seggi) ci ha detto che c’era e c’è una grande resistenza ai propositi di cambiamento della coalizione di centrosinistra. Non avrebbe retto e avrebbe lasciato lo spazio necessario al ritorno di vecchi riti democristiani: larghe intese, governo istituzionale, grande coalizione e chi più ne ha più ne aggiunga.
Rifondazione è stata parte fondamentale della seconda condizione, ovvero del tentativo di ricostruire uno spazio pubblico in cui la politica si deve cimentare con la sua fonte di legittimazione, deve (o dovrebbe) uscire dal palazzo. E’ sicuramente questo il motivo per cui siamo così invisi alle mosche cocchiere del «riformismo», a quelli che «la politica è una cosa seria, lasciateci lavorare».
Le domande, talvolta le intimazioni, che vengono dalla sinistra le trovo fondate su argomentazioni che contestano questo nostro tentativo al fondo. Sia quelle che provengono da una cultura frontista, in cui il «sacrificio» del governo è, a mio modo di vedere, un’inutile resa alla realpolitik, sia quelle che ci descrivono come «antropologicamente incompatibili» con questa contraddizione. Tra costoro c’è il mio vecchio compagno di partito Turigliatto. A Franco non contesto, come fanno in tanti, le sue convinzioni, ma l’aver impedito che le nostre democratiche decisioni avessero un effetto concreto. Gli contesto di aver rotto un patto di solidarietà e di aver stravolto il corso di una decisione che la comunità alla quale apparteneva aveva preso, non certo a cuor leggero. Quando c’era il Pci la maggioranza decise che voi del manifesto dovevate tacere, sparire dal dibattito. Esagerare nei paragoni rende caricaturali le critiche. Qui è la decisione di un singolo che rende diversa l’azione di tutti gli altri.
Ma, in conclusione, sono io a fare qualche domanda. Vale o no la pena di provare a cambiare la politica oggi? E’ proprio poco aver contribuito ad un clima nel quale nessuno sta zitto e alla crescita di una grande domanda di partecipazione? Durante il primo governo Prodi, quello del ’96, i sindacati erano paralizzati e di movimenti neanche l’ombra. Oggi c’è la Fiom nella manifestazione del 4 novembre. Ci sono tutti i sindacati che, nel mezzo della crisi, fanno sapere che le pensioni non si possono massacrare. Ci sono i comitati di Vicenza ( a proposito, lì c’era scritto «Prodi ripensaci» e non «Prodi vattene») e quelli della Valle Susa. Noi stiamo lì in mezzo, senza prendere parola per altri, ma cercando di passare dalla rappresentazione alla espressione della soggettività. Senza dubbio siamo «impigliati» in questo tentativo: rompere la dicotomia non già tra partiti e movimenti o tra puri e compromessi, ma tra alto e basso, tra inclusi ed esclusi. Abbiamo preso i 12 punti consapevoli della difficoltà. Non vogliamo mollare. E voi?

* capogruppo Prc alla Camera