Noi, Hina e le altre Stiamo facendo finta?

Passata l’ondata di orrore, spese tante parole che suonano rituali di fronte all’orrenda morte di una giovane che cercava la sua strada nel mondo, perché non riconoscere che la morte di Hina apre questioni difficili da dipanare?
Il ministro Amato ha messo i piedi nel piatto dicendo più o meno: il riconoscimento della libertà femminile deve accompagnare il giuramento sulla Costituzione per l’ottenimento della cittadinanza italiana. Qualcuna di noi ha pensato: ma ai nostri connazionali viene mai fatto un esame sui diritti universali delle donne? Sono scorsi davanti agli occhi recentissimi e italianissimi atti di violenza contro le donne e i ricordi non così lontani nel tempo dei delitti d’onore o dei matrimoni riparatori. Insieme, la consapevolezza che i passi avanti sono figli delle lotte delle donne e che la nostra libertà, il riconoscimento del nostro essere persone sono traguardi non ancora raggiunti.
Tutto uguale, quindi? Si tratta solo di accorciare anche per altre culture i tempi di maturazione e di acquisizione dei diritti delle donne?
Per chi sostiene il rispetto delle altre culture e l’integrazione come obiettivo del futuro multietnico del nostro paese, la risposta parrebbe obbligata, come obbligato è distinguere il gesto della famiglia di Hina dall’idea che possa riguardare tutti i musulmani, o tutti i pachistani. Tutto politically correct!
Poi si leggono le cronache, le interviste nella comunità pachistana, le storie di altre donne e le domande si affollano: non stiamo facendo finta? Non siamo sempre condizionate dall’idea che il solo porre il problema sfoci rapidamente nel razzismo? Non abbiamo detto noi, in tutte le piazze, che la democrazia non si esporta, meno che mai con la guerra? Che agitare le guerre di religione o la superiorità della cultura occidentale è la culla del terrorismo?
Allora come affrontare il tema del rapporto tra noi e gli altri?
Che si possa morire per avere scelto il proprio amore, che si possa vivere senza documenti perché vengono «custoditi» dal padre o dal marito, che si possa essere picchiate a sangue per l’abbigliamento, per il trucco o per uno sguardo, e che tutto ciò avvenga nelle nostre strade, nella casa accanto, nel silenzio o nell’indifferenza fino a quando non esplode la cronaca, è troppo. Forse urge sfatare il mito che per essere «all’altezza» del processo di integrazione sperato sia d’obbligo rispettare le altre culture a tal punto da non criticare, da non giudicare, da non discutere.
Vorrei provare a dire che nel moralismo che attraversa tanta parte della sinistra e del pacifismo non mi trovo più; mi ricorda antiche discussioni, quando in nome della rivoluzione khomeinista che cacciava lo scià sanguinario ci si rifiutava di vedere che i primi provvedimenti furono quelli di far tornare le donne dietro il velo, sottomesse di nuovo al dominio maschile. La libertà femminile non era considerata né un parametro di democrazia, né di civiltà. Adesso molti negherebbero, ma non è una storia così lontana nel tempo da non poter essere consultata; scrittrici iraniane ce l’hanno recentemente riproposta.
È forse allora per una sorta di falsa coscienza che critichiamo quotidianamente e giustamente le ingerenze papali sulla nostra libertà ma taciamo su altre religioni e mentalità?
Dobbiamo dare per scontato che possa esserci nel nostro paese un doppio diritto, quello ricomposto dalle lotte delle donne, e quello degli altri che vivono nel nostro paese ignorando diritti fondamentali?
C’è una distanza abissale tra l’enormità di questo problema e la polemichetta strumentale sul numero di anni per ottenere la cittadinanza. Servono, piuttosto, iniziative che guardino alle nuove cittadinanze ma anche al maschilismo di casa nostra. Ne elenco alcune. Aggiornare la legge sulla violenza sessuale (in Francia è considerata a un’aggravante il fatto che lo stupro si svolga nelle mura di casa). Creare o consolidare servizi come i telefoni verdi, i centri di ascolto, le case per le donne maltrattate. Garantire sostegno economico, protezione e riconsegna dei documenti alle donne cui venissero sottratti, considerandone il sequestro ciò che realmente è: un reato per traffico di persone. Forse così si darebbe anche un contributo alla lotta al traffico finalizzato alla prostituzione, che spesso si realizza con dinamiche molto simili. C’è poi la questione centrale della scuola e della formazione; non si tratta solo di far rispettare l’obbligo scolastico ma di garantire, anche a chi è già adulto, l’accesso alla scuola nazionale pubblica e laica, magari attraverso una sorta di corsi «150 ore» per l’apprendimento della lingua e per la formazione alla cittadinanza. Infine – e anche qui ci possono aiutare le esperienze fatte in altri paesi europei – credo si debba pensare a norme che garantiscano alle donne che rifiutino matrimoni combinati il diritto allo scioglimento del vincolo e alla protezione.
Altrettanto importante è farsi delle domande su noi e le altre. Come singole e come movimento dobbiamo provare a entrare in relazione con le donne delle comunità, perché la contaminazione, il confronto, la crescita collettiva sono il sale dei processi di integrazione, perché non bisogna peccare di superiorità e indagare, invece, su cosa è repressione e cosa cultura differente, perché abbiamo bisogno di capire, ma anche di discutere e affermare la libertà femminile. Non so se sia vero che il Corano nega il possesso dell’uomo sui destini della donna. So che fa parte della mia libertà dire che se la predicazione di una religione, o la cultura di una comunità, permette di uccidere Hina, voglio contrastare quella cultura. Perché ogni giorno uccide anche un po’ della mia, della nostra libertà.

* Usciamodalsilenzio