La notte dove tutte le vacche sono nere, recitava un vecchio detto. Così, nell’ultimo libro di Marco Revelli, appare il Novecento, una sorta di categoria nella quale, come in un contenitore universale, sono precipitate tutte le grandi divisioni che l’hanno caratterizzato. Nazismo e comunismo, dominio e liberazione, tecnica e politica, violenza e rivoluzione: gli opposti finiscono per coincidere. Scompaiono le dinamiche complesse che ne hanno prodotto i grandi eventi, i conflitti sociali, il protagonismo delle masse, i processi storici, la densità culturale degli avvenimenti. Come nel buio si annullano differenze e tratti specifici. Tutto si riduce a risultato di un’unica matrice che Revelli individua nella razionalità tecnica, nell’organizzazione fordista della fabbrica, nel produttivismo.
Scienza e lavoro vengono usati da Revelli come categorie indipendenti dalla storia, dai rapporti di produzione, dai conflitti sociali, fino a diventare elementi di identificazione fra capitalismo e socialismo reale. Ma può il lavoro, anzi il Lavoro con la maiuscola, funzionare come chiave di lettura dei mali del ‘900? Davvero si può prescindere dai rapporti di produzione e assimilare tra loro est e ovest come articolazioni di uno stesso modello di lavoro?
Lavoro e organizzazione capitalistica
Il lavoro è, secondo Revelli, il luogo della modernità dove si incrociano il «mostruoso» e la «sproporzione» tra mezzi e fini, tra tecnica ed etica. Così, i protagonisti delle tragedie, delle violenze del secolo avevano questo in comune: «tutti lavoravano». Lavoravano i comandanti dei campi di sterminio nazisti, con tempi e metodi da fabbrica, lavoravano gli scienziati che a Los Alamos preparavano l’apocalisse atomica, lavoravano gli operai, i funzionari, i quadri di partito che nell’Unione Sovietica staliniana edificavano il socialismo. C’è da trasecolare innanzi a osservazioni di tale genericità (e ancor più di fronte al credito che viene loro concesso). Ancora una volta, il risultato è una “notte” dove le differenze si annullano e diventano uguali: «tutto diventa, in qualche modo, lavoro: la Guerra, l’Arte, il Sacro, il Pensiero, la Politica…».
La lettura che Revelli propone dell’atto lavorativo si colloca deliberatamente fuori dell’analisi marxista: Marx, da un lato, coglie nel lavoro l’attività con cui l’uomo realizza, oggettivamente, la propria essenza e riconduce la storia a risultato della prassi umana; dall’altro, conduce una critica di quei caratteri di sfruttamento, alienazione e mercificazione che il lavoro dell’operaio assume dentro i rapporti di produzione della società capitalistica.
Revelli, al contrario, finisce per annullare tanto la possibilità di realizzazione che il lavoro rappresenta per l’uomo, la possibilità che esso soddisfi un «bisogno ricco»; quanto le potenzialità critiche di un’analisi che, come quella marxista, tenga conto dei nessi tra lavoro, accumulazione capitalistica, applicazione della tecnica e degli effetti di sfruttamento che ne risultano. Non è il lavoro a calare sul mondo la dittatura della scienza, la volontà di dominio della tecnica; al contrario, è la tecnica, nella misura in cui è asservita agli interessi del capitale, a consolidare la dittatura dello sfruttamento del capitale sul lavoro e sulle classi subalterne.
Criticando il mito del «produttivismo industrialista» e dell’agire organizzato rispetto a uno scopo, Revelli colpisce, in realtà, la pratica novecentesca della rivoluzione, il ricorso delle masse al partito come strumento di trasformazione della storia e del mondo.
Infatti Lenin e Gramsci sono chiamati in causa per la responsabilità di aver costruito un partito-fabbrica e assimilato la rivoluzione a un processo produttivo di lungo periodo, pianificando risorse, strategie e tempi. Addirittura, l’autore dei Quaderni avrebbe rinunciato «a fare del rapporto tra capitale e lavoro il fulcro dell’antagonismo sociale», abbandonando il conflitto della fabbrica e creando l’antagonismo tra il partito, («una sfera produttiva portatrice di un principio assoluto di razionalità»), e la classe, ( considerata alla stregua di «un assetto sociale anarchico e parassitario»).
Persino lo Stato sociale viene valutato negativamente, avendo spostato il terreno dello scontro «dalla questione dell’autonomia dei produttori a quella della distribuzione del surplus». Non senza accenti nostalgici Revelli afferma che la «liquidazione delle tradizionali economie morali fondate sulla reciprocità lascia il campo alla nuda, impersonale pratica negoziale».
Socialismo reale
La critica che viene avanzata al modello fordista-taylorista non colpisce tanto l’organizzazione capitalistica del lavoro, quanto piuttosto l’organizzazione in quanto tale. Annulla la possibilità di un agire politico, collettivo, di classe, che si organizzi per un rovesciamento rivoluzionario dei rapporti di dominio. Spezza il nesso tra il sociale e il politico, tra liberazione del lavoro salariato e conquista dello Stato. Del resto, questo è lo schema che Revelli fa intervenire nel giudicare le vicende del socialismo reale. Tragedie e grandezze non sono commisurate al contesto in cui si svolgono, all’arretratezza dei paesi in cui le rivoluzioni proletarie accadono, alla stretta dei tempi disponibili per affrontare la loro modernizzazione, all’accerchiamento del campo socialista, all’imposizione della logorante logica degli armamenti. Non vi è cenno di questa complessità, per cui la rivoluzione d’Ottobre «fece della grande rete dei militanti comunisti, di quel gruppo eterogeneo di sovversivi, d’improvviso, un grande corpo di uomini di stato, ognuno con l’anima spaccata tra sovversione e ordine, tra rivolta e comando, tra Piazza e Caserma». In queste parole si riflette un primato accordato da Revelli al sociale sul politico, alla critica sulla affermazione: ne risulta spezzato il nesso tra rivoluzione e costruzione che il comunismo novecentesco ha tentato, pur tra drammi e tragedie, di mantenere saldo.
Non pago di questo, Revelli fa proprio senza remore lo schema-base del revisionismo storico, l’idea di una sostanziale equivalenza tra comunismo e nazifascismo, concepita sullo sfondo della ben nota teoria degli “opposti e convergenti totalitarismi”. Nel libro si giunge ad affermare che l’esito del nazismo «non è stato diverso» da quello prodotto dal comunismo novecentesco e che quest’ultimo ha usato «le armi degli altri (dei propri nemici, delle tradizionali classi dominanti, degli oppressori e dei tiranni) […] peggio degli altri». Si identifica la rivoluzione con la violenza. Al rifiuto di quella storia si accompagna la dissoluzione della teoria comunista in quanto tale. «Così oggi possiamo in qualche modo constatare come l’esperienza vissuta del socialismo reale abbia finito per decostruire l’identità stessa del comunismo ideale chiudendone l’orizzonte. Ponendolo, di fatto, nel campo dei progetti non solo praticamente non realizzabili, ma neppure teoricamente auspicabili». E se ciò è vero, ha quindi ragione Veltroni quando afferma che comunismo e libertà sono incompatibili.
La sinistra oltre il Novecento
Ciò che questo esercizio distruttivo lascia in piedi è solo un arcipelago di soggetti accomunati da un confuso movimento di ribellione/resistenza al potere della Tecnica, all’astrazione del Denaro, alla logica mercantile e della Globalizzazione.
Eppure, non si possono trascurare i limiti di questa concezione fondata sulla autonomia del sociale e sulla cancellazione della politica, della sua dimensione organizzativa. Non è chiaro come questa pluralità di soggetti possa decidere di porsi fuori del mercato e dello scambio di denaro, fino a costituire una rete autorganizzata, una massa critica e attuare un grande esodo dal capitale. Così come non sono chiari i confini tra l’autogestione, il cosiddetto “terzo settore” e il riprodursi di logiche da impresa capitalistica, sfruttatrice di lavoro vivo e divoratrice di welfare. E neppure si intravedono, al momento, percorsi idonei a ricomporre l’elemento locale di simili esperienze con un livello globale. Di quali strumenti devono dotarsi per ottenere un peso che non sia solo simbolico e per contrastare efficacemente le strategie mondiali del capitale?
La questione del rapporto tra movimenti e partiti, tra forme puntuali di aggregazione diretta e strutture politiche organizzate, continuative, rimane ancora oggi aperta. Né può essere chiusa, come Revelli suggerisce, rifugiandosi nella piccola dimensione del particolare, della comunità, delle «piccole isole umane» che al «sentire» e ai «sentimenti» assegnano il primato sul «concatenamento razionale» dell’azione politica; che respingono il partito come modello di ricomposizione a unità dei molti individui, a favore di una logica di «disseminazione» e di «messa in rete dell’eterogeneità»; che rivendicano, infine, l’autonomia del sociale e della vita quotidiana dal politico.
No, la questione non può essere risolta con la cancellazione della politica novecentesca, espressione della capacità delle classi subalterne di organizzarsi per un grande progetto di emancipazione collettiva e di trasformazione della società.
Ma qui non è nemmeno in questione il giudizio storico e politico sotteso all’analisi di Revelli, giudizio che ciascuno è libero di valutare come crede e di assumere, nella misura in cui lo ritenga opportuno.
Il discorso chiama in causa piuttosto noi stessi in prima persona. Se il resoconto qui fornito delle tesi di Revelli è corretto, ne segue una conseguenza immediata: se si condividono tali tesi non è semplicemente possibile pretendere al tempo stesso di ritenere la rivoluzione una finalità positiva, il partito uno strumento utilizzabile e il comunismo (rifondato fin che si vuole) l’obiettivo a cui dedicare la propria azione militante.
Non si può: non si può, per rispetto dei propri interlocutori e di se stessi dire di volere qualcosa su cui contemporaneamente si scaricano accuse infamanti. E’ una questione di coerenza elementare e di onestà politica e intellettuale dalla quale non ci si dovrebbero permettere deroghe.