Nobel per l’economia ai giochi del conflitto

La legge del pendolo sembra valere anche a Stoccolma. Dopo la discussa assegnazione dei Nobel 2004 per l’economia ai «falchi» del neo-monetarismo Kydland e Prescott, la Banca di Svezia ha deciso quest’anno di attribuire l’ambita onorificenza a quelli che potremmo definire «due giochisti del disarmo». L’israelo-americano Robert J. Aumann, classe 1930, della Hebrew University di Gerusalemme, e l’americano Thomas C. Schelling, classe 1921, della University of Maryland, sono stati premiati «per avere rafforzato la nostra comprensione del conflitto e della cooperazione attraverso la teoria dei giochi». Dove per teoria dei «giochi» si intende lo studio di tutte quelle situazioni – economiche, politiche, militari, ecc. – in cui le scelte dei soggetti coinvolti vengono effettuate in un contesto strategico, vale a dire un contesto in cui le conseguenze dell’azione di ognuno dipendono anche dalle azioni degli altri. Difficilmente si sarebbero potuti premiare personaggi così diversi tra loro. Mite professore, esperto matematico ed uomo di profonda fede religiosa Aumann, consigliere politico della Casa Bianca ed abile comunicatore Schelling, i due appaiono accomunati dall’influenza che i pericoli della guerra fredda, e la necessità di individuare meccanismi in grado di promuovere il disarmo nucleare, esercitarono sulle loro rispettive attività di ricerca. Appena trentenne, Aumann assistette ad una conferenza del 1961 di Henry Kissinger, nella quale il futuro segretario di stato accennò all’impiego della teoria dei giochi nell’ambito delle travagliate relazioni diplomatiche dell’epoca con l’Unione Sovietica. Per un ricercatore che fino a pochi anni prima aveva elogiato della matematica la sua assoluta «inutilità» pratica, fu una vera sorpresa rendersi conto che alcune tecniche di cui si stava occupando fossero oggetto di interesse in una partita politica da cui dipendevano i destini di tutto il genere umano. Da allora Aumann si dedicò ad approfondire le ragioni che possono condurre due o più contendenti a delle soluzioni di cooperazione anziché di conflitto. In particolare, il suo apporto fu decisivo per la generalizzazione di quello che in letteratura è noto come Folk Theorem, o «teorema popolare». Secondo questo teorema, se un gioco non si basa su una «partita unica» ma viene «ripetuto» nel tempo, allora sotto date condizioni verranno a crearsi dei meccanismi di credibilità e di reputazione in grado di condurre le parti a dei risultati di tipo cooperativo. Attraverso questi giochi si potrà ad esempio giungere ad una spiegazione «formale» del motivo per cui la guerra fredda tra Stati uniti ed Unione sovietica non sia mai sfociata nell’apocalisse nucleare. L’idea, in proposito, è che ognuno dei contendenti sapeva che l’altro avrebbe «cooperato» solo se e nella misura in cui il primo avesse fatto altrettanto. Qualsiasi deviazione dall’equilibrio cooperativo avrebbe indotto l’altro a concretizzare la minaccia di «premere il grilletto» (trigger strategy, in gergo), vale a dire di lanciare le testate nucleari. E questo spingeva entrambi a perseguire sentieri di tipo non conflittuale.

Si potrebbe trarre da questi giochi un risultato alquanto banale, e cioè che pur movendosi in modo del tutto auto-interessato, Kruscev e Kennedy non potevano che giungere a risolvere pacificamente la crisi dei missili di Cuba. In realtà la struttura stessa dei giochi può esser complicata a piacimento, includendo elementi che rendono più incerta e complessa l’individuazione delle soluzioni. Un modo per complicare l’analisi, e per tentare di avvicinarla maggiormente alla concreta prassi politica, viene descritto nell’opera di maggiore successo di Schelling: The Strategy of Conflict (1960). In essa, l’autore scrive che «il potere di vincolare un avversario può dipendere dal potere di vincolare sé stessi». Ed aggiunge che «nella contrattazione la debolezza può essere un fattore di forza, la libertà può rivelarsi libertà di capitolare, e rompere i ponti dietro di sé può risultare la giusta strategia per sconfiggere il nemico». Una dimostrazione immediata di questo concetto è contenuta nella stessa «minaccia del grilletto», illustrata in precedenza. Se ad esempio i sovietici avessero avuto il sospetto che, una volta attaccati gli Stati uniti, questi ultimi non se la sarebbero sentita di rispondere al fuoco, la tentazione da parte dei primi di lanciare l’offensiva sarebbe stata fortissima. Qualcuno ricorderà forse War games, un cult movie adolescenziale degli anni `80 nel quale proprio il rischio di una simile eventualità – magari causata da una crisi di coscienza degli addetti al lancio delle testare – costituiva il pretesto per una totale automatizzazione del sistema di difesa americano. Ma le considerazioni di Schelling non hanno soltanto rappresentato uno spunto per la cinematografia americana. Basti notare quanto il concetto del «rompere i ponti dietro di sé» somigli alla famosa strategia del «pazzo», basata sul continuo sorvolo degli spazi aerei vietnamiti e sovietici da parte di B52 americani carichi di bombe nucleari. Richard Nixon, con il placet dello stesso Kissinger, riteneva con questa strategia di poter costringere i vietcong a sedersi al tavolo delle trattative, in una fase delicatissima del conflitto.

Per come alla fine andarono le cose in Vietnam, non si può certo dire che le intuizioni di Schelling e le relative formalizzazioni di Aumann e degli altri esperti di teoria dei giochi si siano rivelate sempre infallibili, almeno da un punto di vista predittivo. Del resto, per quanto altamente sofisticate sul piano matematico, queste applicazioni teoriche suscitano nell’analista politico tradizionale un comprensibile senso di stupore e di inquietudine. Soltanto una lettura molto naif del mondo potrebbe infatti indurre a credere che la prassi politica, e quindi più in generale il corso della storia, possano essere racchiusi in strutture logico-formali così fortemente condizionate da una serie innumerevole di ipotesi di partenza, e soprattutto in grado di dar luogo esclusivamente ad analisi di tipo parziale. Non è questo ovviamente il caso di Schelling e di Aumann, che hanno solitamente valutato con grande prudenza il rapporto tra i loro modelli e lo svolgersi effettivo degli eventi. Viene da chiedersi tuttavia se la strada seguita dai più recenti sviluppi degli studi sociali, e avvalorata dall’orientamento della Banca di Svezia, sia quella più adeguata alla comprensione del mondo in cui viviamo. In altri termini, occorrerebbe forse domandarsi se lo spazio della formalizzazione matematica in ambito sociale debba essere accresciuto, come oggi accade, o se debba piuttosto essere ridimensionato al fine di recuperare ed aggiornare un’antica ambizione totale, fondata sulla costruzione di un articolato processo interattivo con le altre scienze dell’uomo: dalla storia economica e politica, alla sociologia, alla psicoanalisi.