Cigola la porta aperta dal ministro Ferrero, l’aria stantia della benpensante Italietta filtra dalla minuscola fessura, mani volenterose cercano di togliere le ragnatele di decenni di pensiero moralista dal minuscolo spazio da cui si intravede il sole del comune buon senso brillare, luce della ragione, cui come popolo e governo abbiamo rinunciato da sempre in materia di lotta agli stupefacenti.
Come sempre la prima cosa che viene violentemente da chiedersi è perché, perché quando si parla di protocolli terapeutici già adottati da molti anni nelle nazioni leader in Europa per quanto concerne una risposta sensata al problema della droga, in Italia invece si parli ancora di «proposta shock». Ma chi dovrebbe subirlo questo shock? Cerchiamo di spiegarlo, non è difficile, e vi è una prima ovvietà che balza subito agli occhi: è lampante che se ci si affanna a presentare la questione alla opinione pubblica in termini di apertura di famigerate «stanze del buco» la gente stenterà a capire, sarà diffidente, sarà contraria, non se ne farà nulla. L’immagine che salta agli occhi sottolineando un aspetto così limitato e insignificante della questione ma così fortemente e negativamente suggestivo, è quella di un luogo miserando, nel quale carcasse camminanti senza più nulla di umano, perdono infine la loro ultima possibilità di riscatto attraverso l’inflessibile pollice verso del governo, che impietoso delibera: Vi è piaciuta la bicicletta? Ora ve la regaliamo pure e via pedalare! Che così almeno non ci rompete i co…
Alla faccia della solidarietà. Ma non è meglio rinchiuderli dove non potranno nuocere a se stessi e agli altri? Così pensa l’uomo della strada, ovvio farlo, e come dargli torto se gli poniamo la questione in tali termini? Ecco quindi che, scioccata, l’Italia della disinformazione subisce lo spavento, lo soffre con l’inganno e si affretta a sbarrare il passo a l’unica risposta staticamente di successo e ampiamente verificata degli ultimi decenni.
Ma la situazione reale è diametralmente opposta e va spiegata in termini semplici. Dopo decenni di studi scientifici paesi che torniamo a citare come la «libertina» Svizzera in testa, la Germania, la Spagna, l’Australia, l’Olanda, hanno ragionevolmente chinato il capo alle segnalazione univoche che provenivano e provengono dal mondo scientifico e che certificavano un unico metodo come statisticamente vincente in tutti i settori intrecciati che contribuiscono a rendere il problema un problema collettivo considerando nella risposta da proporre il settore del recupero, dei costi sociali, della salute pubblica, della criminalità conseguente. Tale risposta è chiamata «riduzione del danno», riduzione di tutti e di ognuno di questi danni sociali e, con buona pace dei fautori delle comunità di recupero, o addirittura dei fautori della legge Fini (ma chi sarebbero poi?), è la soluzione che ha consentito anche il maggior numero di recuperi «completi» oltre che un abbassamento enorme delle morti per sostanze da taglio e da overdose, incidendo inoltre in modo devastante sulla economia criminale, indebolendola.
All’interno di questo approccio, vi è anche, e ultimamente acquista una forza sempre maggiore soprattutto dopo la pubblicazione dei più recenti risultati svizzeri, l’utilizzo possibile per alcuni pazienti della medesima sostanza che li ha portati alla dipendenza, ma che impiegata in modo scientifico, pulito, e pianificato consente proprio a chi non ha più alcuna speranza, la possibilità provata di tornare a vivere.
Perché? Perché la diacetilmorfina (eroina) è assai meno tossica delle sue due concorrenti terapeutiche metadone e buprenorfina, perché nei meccanismi di approccio alla dipendenza l’utilizzo di una sostanza «proibita» ha ancora una sua spinta psicologica e sicuramente l’ha avuta potentemente in passato, perché andare quattro volte al giorno a bucarsi dal medico spinge a smettere, allontana dalla strada, lascia il tempo libero per occuparsi di altre cose nella propria vita e non unicamente della ricerca di soldi e sostanza, perché le dinamiche stesse della dipendenza crollano, perché si instaurano contatti quotidiani con le strutture e con i medici e i terapeuti, perché si giunge così a una grande parte della popolazione dipendente che non si è mai rivolta a un centro, perché insomma, come ci è stato dimostrato, così, nel giro di un paio di anni, davvero molti decidono di smettere davvero. Hanno finalmente altre cose nella loro vita, la ricerca della droga e la droga stessa diventano un impedimento alla nuova esistenza, e, piano piano, si ritorna a vivere.
L’eroina controllata è uno dei grandi atti di compassione e civiltà dei nostri tempi e solo in questo paese può assurdamente diventare un proposta shock. Ricordiamoci quindi che non esistono «stanze del buco», esistono le stanze della dignità e questa va preservata.
Caro ministro Ferrero vada avanti, insista, spieghi, informi, si faccia aiutare e sostenere dalla comunità scientifica, dai sert, dagli specialisti. Andiamo in Svizzera, andiamo a imparare come si fa e poi facciamolo. Il bello dei risultati scientifici è che non hanno colore politico, o riescono o falliscono.
Non vi è alcuna ragione credibile perché un protocollo farmacologico debba riuscire in tutto il mondo e fallire da noi una volta messo in opera. Quello che può fallire invece è il lavoro di abbattere il muro di perbenismo e falsità, di interessi e connivenze che a quindici anni dai primi protocolli europei sulla distribuzione controllata, ancora impedisce a un paese spesso all’avanguardia come l’Italia, di adeguarsi alla conoscenza condivisa e di metterla in atto.