No all’annessione nel “partito unico”

Penso anch’io, come tanti compagni che hanno scritto, che il dibattito in corso nel partito si stia facendo confuso e poco limpido. Faccio parte della cosiddetta “minoranza” della maggioranza o area dell’Ernesto. Non è la prima volta che mi trovo a far parte di una minoranza, in un partito o nel sindacato e so per esperienza che spesso rilievi, critiche, posizioni diverse vengono interpretati dalla maggioranza come strumentali tentativi di raccogliere consensi alla propria area in vista del Congresso. Successe ai tempi della svolta di Ochetto e successe nella CGIL quando nacque “Essere Sindacato”.

All’epoca tutti, Bertinotti compreso, sfornammo raffinate analisi sulla necessità, per tenere aperto un orizzonte comunista e di classe, di riconoscere e valorizzare le minoranze, la cui presenza rompeva con una tradizione accentratrice e vetero, aggiungendo un quid di democrazia ad un dibattito asfittico. Arrivammo a teorizzare e a praticare l’esistenza organizzata di aree di pensiero (così continuiamo a chiamarle per esorcizzare un termine: “correnti”, che evoca con troppa crudezza pratiche politiche in cui non ci riconosciamo) e in molti sostenemmo Ingrao che, da solo, scelse di votare in difformità dal suo partito, contro la guerra del Golfo.

Non immaginavo, dunque, di ritrovarmi oggi a dover difendere ancora il mio diritto di stare in minoranza dicendo quello che penso, senza dover subire l’accusa di far danno al partito e addirittura al “popolo” più ampio che voterebbe in massa Rifondazione comunista se quelli come me (l’antica “zavorra” di Ochetto) si togliessero di mezzo. Stupisce anche vedere dalla parte di chi impugna forme di rinnovato centralismo (che non diventa più “democratico” soltanto perché a praticarlo è l’attuale dirigenza di Rc) autorevoli dirigenti che, come Bertinotti e Gagliardi, provengono da esperienze che dovrebbero metterli in guardia dall’usare mezzucci un tempo usati contro le loro, di posizioni!

Stupori a parte, vorrei chiedere che cosa bisogna fare o dire perché una preoccupazione legittima e sana – evitare di essere annessi, attraverso indefinite “primarie sui programmi”, ad una sorta di “partito unico” dell’Ulivo, di cui dover accettare le decisioni prese a maggioranza anche su faccende dirimenti come la guerra – venga considerata per quella che è: una preoccupazione di natura politica e nient’altro? E come si può, se non nominandola, trasmettere al gruppo dirigente del partito una preoccupazione diffusa in tanti dei nostri potenziali elettori, quella cioè di articolare alcuni punti programmatici che costituiscano una garanzia di cambiamento reale, e non soltanto di aggiustamento del trucco, nel governo che vogliamo costruire?

Anche a me l’idea che il programma del futuro governo venga contrattato dalle sole oligarchie degli attuali partiti, spaventa. Come donna ho un motivo di spavento in più, perché una rappresentanza al 99,9 per cento maschile non mi da nessuna garanzia di riuscire ad interpretare necessità e desideri di un sesso, quello femminile, praticamente azzerato nelle segreterie di partito. So però che non è garanzia di percorso democratico reale l’allargare populisticamente la platea senza indicare percorsi controllabili e dotati di un qualche senso.

Cosa non va nella proposta di assemblea o costituente programmatica a cui chiamare quanti hanno sostenuto il referendum sull’art.18, tanto per cominciare? E certamente non ci mancherebbero gli strumenti (politici) per proporre percorsi di collaborazione a quanti, nei movimenti per la pace, ambientalisti, delle donne, sappiamo interessati all’elaborazione di un programma di alternativa perché possiamo contare sulle relazioni che già abbiamo costruito con loro, se è vero che di quei movimenti siamo parte integrante e non retrograde “avanguardie” con intenti colonizzatori.

Un’ultima questione: crediamo davvero di essere credibili quando rivendichiamo la democrazia di massa o partecipata, mentre non ci preoccupiamo di garantire nel nostro stesso partito un percorso condiviso di partecipazione alla elaborazione delle decisioni? Perché certo né la maggioranza né Bertinotti stesso possono sostenere di aver cercato il consenso attorno alle loro più recenti posizioni. La domanda resta la stessa, vale per il governo come per il partito: chi decide cosa, e come?

Delfina Tromboni, Ferrara