No alla parità, men che meno alla pensione

Sarebbe paradossale e increscioso che la parità tra uomo e donna in Italia cominciasse proprio dalla pensione, quando tante donne, spremute dal doppio lavoro fuori e dentro casa, non vedono l’ora di fare esclusivamente le casalinghe, un lavoro non retribuito e socialmente misconosciuto che hanno peraltro sempre svolto avendo accanto mariti-compagni che, dati alla mano, le aiutano molto meno della stragrande maggioranza dei maschi europei nei lavori domestici e nella cura dei figli.
Nella realtà, mentre il governo discute di alzare a 65 anni l’età pensionabile delle dipendenti pubbliche per adeguarsi alle norme europee, è facile che a 60 anni una pensionata italiana abbia ancora qualche anziano da accudire e magari il mestiere di nonna che l’attende anche perché, esattamente come era accaduto a lei, le sue figlie, per quanto siano da anni le meno prolifiche della Ue, dispongono di meno servizi sociali delle altre donne del vecchio continente.

Si rischia dunque un ennesimo taglio alla spesa sociale senza niente in cambio? Penso di sì, se si calcola che il nostro Paese si piazza all’ottantatreesimo posto nel mondo per le disparità economiche e politiche di genere, peggio del Burkina Faso, per intendersi. I dati europei appena diffusi confermano peraltro che le donne hanno salari più bassi dei maschi del 17,4 per cento a causa di una generalizzata “sottovalutazione del lavoro femminile, di tradizioni e stereotipi e del maggior carico di lavoro nell’ambito domestico”, che impedisce loro di investire sulla carriera, fare formazione e straordinari. Questa è però la media europea, le italiane sono pagate ancora meno e hanno appunto un record negativo non invidiabile di servizi sociali. Sarà per questo che non solo la Cisl di Bonanni frena, ma anche il leader della Lega Umberto Bossi sta facendo marcia indietro. E il ministro Sacconi blocca Brunetta, dopo il no secco di Cgil e Pd. Oltretutto la Corte europea ha sollecitato l’Italia a rivedere quella norma perché non ritiene che la pensione a 60 anni sia una forma legittima né adeguata di compensazione per gli svantaggi che incontrano le dipendenti pubbliche nella vita professionale. La Corte ha infatti lasciato libertà di pensare forme diverse, più efficaci, per appianare difficoltà e discriminazioni.

Ma allora occorre chiedersi: compensazione per cosa e per chi? E guardare altri dati. Il Nidil, sindacato Cgil dei precari, parla di sei milioni di precari in Italia, il doppio di quelli elencati dal governo, di cui la maggioranza è femmina. Inoltre il 75 per cento delle precarie sotto i 41 anni non ha oggi figli, un prezzo altissimo pagato alla crisi da chi continua a guadagnare meno e rinuncia alla maternità non per libera scelta. Forse dobbiamo smettere di pensare che le donne vanno ricompensate in qualche modo per via del loro lavoro (quello riproduttivo e di cura) non riconosciuto dalla contabilità nazionale e cominciare invece a compensarle proprio per quel lavoro. Come? Non con i soliti contentini paternalistici, tipo appunto gli sconti sull’età pensionabile. Ma dando finalmente valore al lavoro di cura, “riconoscendo i bisogni di dipendenza come parte integrante dell’esistenza umana e quindi di ogni riflessione su uguaglianza, libertà”, come scrive Chiara Saraceno.

Complicato, ma più equo. Forse era meglio tacere e lasciare la pensione femminile a 60 anni, così le donne stavano buone. Invece ora si rischia che ribadiscano che dell’uguaglianza non sanno che farsene e che vogliano riconosciute pari opportunità ma nella differenza. “Le donne sanno che i loro interessi e quelli degli uomini non sono mai stati identici fin dall’alba dell’umanità”. Firmato dall’attivista americana Josephine Conger Kaneko. Nel 1907. Ecco, appunto, l’uguaglianza tra i sessi è una forzatura, una trappola (per le donne) e pure, se vogliamo, una noia (per entrambi).