Dottor Giancarlo Caselli, lei oggi è il procuratore generale del Piemonte, ma in passato si è occupato di terrorismo e di mafia, Che cosa pensa del clamore odierno attorno ai temi della sicurezza? È d’accordo con gli annunci che giungono in queste ore dal governo?
«No, non sono del tutto d’accordo».
E perché?
«E vero, in 40 anni da magistrato ho fatto tanti mestieri: sono stato anche responsabile di tutte le carceri, ho lavorato ad Eurojust per combattere la criminalità internazionale e ho presieduto una corte d’assise dove si condannano gli assassini. Posso dire, dunque, che conosco bene il problema della sicurezza e che essa mi sta a cuore. Ma non credo che la soluzione ai suoi problemi sia solo la rincorsa alle manette. C’è una questione di coerenza politica, prima di tutto».
Beh, cominciamo da politica e coerenza. Che cosa vuol dire?
«lo, è noto, vado spesso in giro per dibattiti e nelle scuole, proprio a parlare di legalità: da un po’ di tempo sento di essere fuori moda. È il frutto di un lustro di storia italiana, quello che coincide con la passata legislatura. Per anni, si è fatto intendere che le regole vanno bene sino a quando le si proclamano, poi diventa subito bravo chi sa aggirarle meglio. È l’Italia dei condoni, delle leggi ad personam per sottrarsi ai processi, del “cosi fan tutti”. Dopo, quelli che sono ì più tolleranti con se stessi, invocano la tolleranza zero per gli altri, che a loro volta sono sempre gli stessi…».
Di chi parla?
«I più deboli, i diversi, ma anche i cittadini “comuni”. Il nostro sistema di legalità ha due codici: quello per i galantuomini a prescindere, per censo; subito dopo quello che vale invece per tutti gli altri. Con in mezzo gli eterni problemi della giustizia. La lentezza dei processi soprattutto, che per i primi costituisce la salvezza dalle condanne e per gli altri una punizione in più».
Il ministro Amato definirebbe questi suoi discorsi sui «diversi» come «sociologia d’accatto». Vuol provare a rispondergli?
«Guardi, io non faccio il sociologo. Lo ripeto: penso di poter parlare di legalità avendone titolo come magistrato penale da 40 anni. E non condivido neppure quella definizione secondo cui la sicurezza «non è né di destra né di sinistra». È un modo di dire che ci offende: noi che, per anni, siamo stali chiamati giustizialisti e “toghe rosse” proprio perché volevamo difendere la legalità. Un tempo la sinistra era considerata sinonimo di garantismo e la destra di ordine. Ora, invece, c’è un’inversione deformante di tutto questo, con chi chiede privilegi per sé e nessuna tolleranza per gli altri».
Ma oggi la maggioranza di governo, dopo quel lustro, è cambiata. Continua ad essere critico?
«Faccio fatica a orientarmi, le differenze politiche sì stanno affievolendo. Si fa a gara nell’appiattirsi sulle posizioni con venature populistiche ad accantonare ad esempio la difesa dei diritti sociali nel nome supremo della sicurezza, ad assecondare le paure e le insicurezze della gente e le sue percezioni esasperate».
Che cosa dovrebbe fare allora la politica?
«Arginare le paure e le insicurezze, far comprendere ai cittadini che spesso esse sono esagerate. Non confondere i diversi temi e i diversi problemi della legalità. Invece vedo una trasversalità politica nei com-piacere un’opinione pubblica sempre più arrabbiata, perdendo di vista la complessità della realtà».
Facciamo qualche esempio?
«Ragioniamo sui lavavetri o sui posteggiatori abusivi e persino sui
graffitari. È gente che, se non compie atti violenti, non commette alcun reato. Pensare alle manette per cancellarli dalla città è un assurdo giuridico e anche un’illusione. Su questi temi leggo molta confusione».
In che senso?
«Si mettono assieme problemi molto diversi tra loro: la criminalità organizzata, la criminalità comune, la microcriminalità e persino comportamenti che non sono criminali. Non voglio giudicare i provvedimenti annunciati dal governo, perché non sono ancora concreti, ma vi scorgo il pericolo che siano non una serie di interventi mirati, ma un gran calderone».
Ma il magistrato Caselli, l’uomo che ha attraversato tutti gli scenari della lotta al crimine, che cosa suggerisce allora?
«Che reprimere non basta: le risposte devono essere anche altre. Quanto al funzionamento della giustizia, bisognerebbe cominciare prima dalla certezza della pena e dalla durata smisurata dei processi. Non è possibile che in Inghilterra il primo grado di un processo penale duri pochi mesi e in Spagna solo un anno, mentre da noi si va dai 4 ai 6anni.Si tratta di offrire più soldi alla giustizia, di distribuire meglio le risorse là dove sono più necessarie e di snellire le procedure cancellando i cavilli travestiti da garanzie».
Un esempio da imitare?
«Non voglio fare il campanilista ma direi proprio Torino. Saranno state le Olimpiadi, sarà stato l’impegno di tutti, ma ora è davvero una bella città. C’erano luoghi poco vivibili e oggi sono quelli dell’aggregazione cittadina. Ce ne sono purtroppo altri con ancora dei problemi, ma importante è la valutazione complessiva. Noi abbiamo un modo di dire, anche quando i problemi esistono, che penso non abbia bisogno di traduzioni: “esagerume nen”. Vuol dire agire senza tori apocalittici».