Nigeria, assalto al pozzo Eni. Sequestrati tre tecnici italiani

Si chiamano Francesco Arena, Russo Cosma e Roberto Pieghi, gli italiani rapiti ieri mattina all’alba nell’impianto di Brass di proprietà dell’Agip-Eni, in Nigeria, nello stato di Bayelsa. Il primo è un dirigente, gli altri sono funzionari di una società subappaltatrice, la Naoc. Insieme a loro è stato sequestrato anche il libanese Imad S. Abed, dipendente di una società di catering, mentre un suo connazionale è rimasto ferito nello scontro a fuoco che pare abbia causato delle vittime anche fra la popolazione locale. Secondo l’agenzia Misna, nella sparatoria potrebbe essere rimasto ucciso anche un bambino. Mentre dalla Farnesina arriva l’invito a non intraprendere azioni avventate, secondo quanto dichiarato alla Misna da Ogbonna Nwuke, direttore del Port Harcourt Telegraph, «Le autorità nigeriane per ora vogliono privilegiare la trattativa e non è ancora stata decisa un’azione militare per la liberazione dei tre ostaggi». Nwuke ha confermato che al momento dell’assalto, compiuto con alcune imbarcazioni al largo della città di Yenagoa, gli uomini armati e mascherati hanno avuto uno scontro a fuoco con gli addetti alla sicurezza dell’impianto, come aveva riferito già ieri mattina la polizia nigeriana. Dopo un primo tentativo di attacco alla stazione di pompaggio il gruppo armato sarebbe entrato nel compound residenziale da dove, appunto, sono stati prelevati i quattro ostaggi. Una ricostruzione indirettamente confermata anche dal fatto che, a detta dell’Eni, l’attacco non ha compromesso le operazioni del terminal di Brass, in grado di pompare 200 mila barili al giorno.
Fino a poco tempo fa le autorità hanno sempre privilegiato le trattative, soprattutto quando sono in ballo dipendenti stranieri – con gli ostaggi locali, l’esercito nigeriano non va molto per il sottile – ma di recente gli attacchi si sono moltiplicati e la capacità produttiva del Paese si è ridotta di un quinto dal febbraio scorso. Spaventato dalla fuga delle compagnie il governo di Abuja ha cominciato a impiegare il pugno di ferro con risultati tutt’altro che incoraggianti come si è visto il 22 novembre scorso, quando un blitz condotto dalle forze di sicurezza nigeriane per liberare otto dipendenti dell’Agip che erano stati sequestrati ha provocato la morte di un ostaggio britannico e il ferimento di un italiano.
Con l’approssimarsi delle elezioni presidenziali e il deteriorarsi della situazione nel Delta del Niger si moltiplicano i sequestri, i sabotaggi, i furti e gli attacchi agli oleodotti che trasportano la ricchezza dal sottosuolo direttamente nei conti delle corporation straniere o dei funzionari compiacenti sotto gli occhi di una popolazione ridotta alla fame. A nulla sono valsi i tentativi di portare avanti pacificamente rivendicazioni del tutto legittime da parte di popolazioni che hanno visto il petrolio distruggere le proprie fonti di sussistenza – principalmente agricoltura e pesca, compromesse dall’inquinamento del Delta – senza ricevere in cambio nemmeno dei modesti risarcimenti. Al contrario, alla repressione della dittatura di Sani Abachi – al quale si deve l’impiccagione dello scrittore Ken Saro-Wiwa e di altri otto rappresentanti del movimento degli Ogoni che si batteva, appunto, per la difesa del Delta – non sono seguite le riforme che tutti aspettavano. Il ritorno alla democrazia, sancito con l’elezione nel 1999 di Olusegun Obasanjo, non ha migliorato affatto la vita delle popolazioni della zona petrolifera né, del resto, quella dei nigeriani in generale che continuano a tirare avanti con un dollaro al giorno. Così, mentre nel Delta si moltiplicano i gruppi armati più o meno politicizzati che cercano di cavalcare la crisi sociale e le spinte alla secessione – ha raggiunto una certa notorietà il Ndpvf (la Forza volontaria popolare del Delta del Niger) che nel 2006 ha ottenuto la chiusura di alcuni pozzi conquistando la simpatia di molti abitanti della regione – in tutta la Nigeria la questione petrolifera sta emergendo con violenza. Basti pensare che nell’inverno scorso migliaia di persone sono scese in piazza a Lagos per protestare contro l’aumento del prezzo della benzina, situazione davvero paradossale in un paese che esporta 2,4 milioni di barili al giorno. L’interessamento degli Stati Uniti e della Cina, che considerano la Nigeria un fornitore più affidabile dell’esplosivo Medio Oriente, non fa che alimentare il conflitto.
Del resto anche il luogo più pacifico del mondo diventa un inferno quando viene sommerso di soldi, armi e consiglieri militari, come sempre accade quando sono in gioco gli interessi petroliferi delle superpotenze.