New York. 96esima strada. Diabete

A New York abito sulla 92esima strada, nel quartiere borghese dell’ Upper East Side. Quattro isolati più a nord, la 96esima strada segna il confine con Spanish Harlem. Un tempo, negli anni della criminalità dilagante e degli scontri etnici, quella strada era quasi una frontiera. Oggi la situazione è molto diversa: neri e ispanici benestanti cominciano a popolare anche la parte bianca di Manhattan, mentre sempre più spesso bianchi, anche di reddito medio e medio alto, si trasferiscono nei nuovi, eleganti condomini di una Harlem che sta cambiando rapidamente volto, grazie a un massiccio sforzo di riqualificazione urbanistica. Eppure, anche ora che ci si muove senza problemi da un quartiere all’ altro, lungo la 96esima strada continua a passare una frontiera, invisibile ai più: a sud – dove i bianchi sono l’ 84% e le persone che vivono sotto la soglia dell’ indigenza il 6,2% – i soggetti obesi sono il 7%, i diabetici l’ 1%. A nord, dove la popolazione è tuttora composta per l’ 88% da neri e ispanici e i poveri sono il 38%, gli obesi sono il 31%, gli ammalati di diabete il 16%. La rapida diffusione del diabete, indotta dal massiccio consumo di «cibo spazzatura», da una vita sempre più sedentaria e anche da una particolare vulnerabilità genetica degli ispanici, viene denunciata dai medici di ogni parte d’ America come un’ emergenza nazionale prossima a esplodere. Tra i 300 milioni di americani ci sono ormai 21 milioni di diabetici e 41 milioni di prediabetici. E le nuove vittime sono spesso i bambini. Gli esperti delineano scenari spaventosi sul piano umano (infarti in classe, teenager in dialisi) con enormi pressioni sulle strutture ospedaliere e scolastiche. L’ epidemia, emerge da una recente inchiesta del New York Times, interessa l’ intero Paese, ma ha colpito in modo particolare la metropoli della costa atlantica dove i diabetici sono più di 800 mila. Più ancora che questo dato, a impressionare è il fallimento di tutti gli sforzi di contenere questa patologia: una vicenda sulla quale dovrebbe riflettere chiunque sia impegnato a riformare un sistema sanitario. In Italia, ad esempio, la politica della salute va sottratta agli interessi dei partiti, vanno evitate interpretazioni aberranti del federalismo e nel sistema vanno certamente inseriti più elementi di mercato. Ma usare un modello di mercato tout court, trattando la sanità come un qualunque settore commerciale, è assai rischioso. «Il mercato è un meccanismo straordinario – mi dice Marc Roberts, professore della Harvard School of Public Health – ma in questo campo funziona male perché il paziente non può comportarsi come il consumatore al supermercato: non conosce i problemi che ha davanti e quindi delega le decisioni a un medico che non ha interesse a economizzare o li trascura e li fa incancrenire». Il laboratorio-Manhattan – dove si concentrano la popolazione più ricca e alcuni degli ospedali e degli istituti di ricerca più avanzati del mondo – fornisce una conferma drammatica. Nel ‘ 99, dopo i primi allarmi, sorsero 4 avanzatissimi centri di cura del diabete: dopo 7 anni la diffusione della malattia è raddoppiata, ma di quei 4 centri ne è rimasto in piedi uno solo. Gli altri hanno chiuso non per mancanza di pazienti, ma perché non riuscivano a guadagnare abbastanza: il sistema delle assicurazioni americane, focalizzato soprattutto sulla copertura dei grandi rischi, non consente, infatti, di fare soldi tenendo sotto controllo una malattia cronica. Brutalmente: le assicurazioni non battono ciglio quando si tratta di rimborsare il costo di un’ amputazione (30 mila dollari) e pagano 315 dollari per ogni trattamento di dialisi, ma raramente coprono spese mediche miranti a evitare che la malattia degeneri fino a questo punto. [email protected]