New Orleans, un anno dopo Katrina. Tutto come allora. Forse peggio

Scorrono sugli schermi televisivi le immagini della tregua in Libano. E subito qualcuno suggerisce, ad un anno dal passaggio dell’uragano Katrina, la più logica soluzione per il problema della ricostruzione di New Orleans. Ingaggiare gli Hezbollah. Affidare l’incerto futuro della città agli uomini di quel “Partito di Dio” che, dopo avere di fatto vinto una guerra concepita per distruggerli, si sono dimostrati – passando dal mitra al bulldozer tra le rovine dei bombardamenti israeliani – i più pronti a cogliere le opportunità d’una fragilissima pace. Dalle macerie di Beirut, insomma, al fango della Louisiana. Non senza aver prima fatto un salto a Baghdad, per la ricostruzione d’una rete elettrica ed idrica ancora a pezzi a cinque anni, ormai, dal fatidico giorno della “liberazione”…Di che si tratta? D’una barzelletta? Certo. Ed infatti a raccontarla è, con molto professionale aplomb, uno che con le barzellette si guadagna onestamente da vivere. Vale a dire: uno dei falsi (e bravissimi) “corrispondenti di guerra” che, dal lunedì al giovedì, animano il “Daily Show with Jon Stewart”, l’esilarante “telegiornale” satirico che, da sei anni, è il fiore all’occhiello del Comedy Channel…
Ma le barzellette, si sa, fanno ridere soltanto quando riflettono una sostanziale parte di vita reale (il che, probabilmente, spiega anche la ragione per la quale le “false” notizie trasmesse da Jon Stewart, vantano, specie nelle fasce d’utenza più giovani, indici d’ascolto molto superiori a quelle offerte dai “veri” notiziari tv). E questa è l’ovvia verità politica crudamente sottintesa dalla boutade sugli Hezbollah: nel primo anniversario della catastrofe che ha distrutto New Orleans (una “Innaturale catastrofe”, come recita il titolo d’uno dei molti libri che, usciti negli ultimi mesi, ricostruiscono la tragedia), il ricordo del passato molto pericolosamente (pericolosamente per Bush) rischia d’unirsi alle cronache del presente – quelle della ricostruzione (o non ricostruzione) della città e quelle del Medioriente in fiamme – in un’unica ed inquietante testimonianza d’incompetenza e di inettitudine. O, peggio, nella convergenza di due fallimenti tra loro diversi (e persino geograficamente lontanissimi) eppure figli, entrambi, d’un unico padre. E della stessa politica.
Un anno esatto è passato dal giorno in cui (il 29 agosto del 2005), dopo un lungo viaggio attraverso il Golfo del Messico, l’uragano Katrina discese – come un indesiderato ma preannunciatissimo ospite – sulle coste del Mississippi e della Louisiana. E proprio questo significa oggi, per l’Amministrazione Bush, commemorare l’evento: cercare di farlo dimenticare. O meglio: cercare d’occultarne le vere cause e le vere conseguenze, il passato, il presente ed il futuro, nella nebbia d’un generico solidarismo, nei fumi d’incenso della “pietà per i morti” e dei patriottici appelli all’unità nazionale, al “comune impegno” per la risurrezione della città.
Tutti uniti. Ricchi e poveri, bianchi e neri. Tutti pronti a seguire un presidente capace di condividere il dolore dei suoi sudditi. E d’agire di conseguenza… Non sarà facile, visti i precedenti. E, per quanto studiati con cura dagli esperti d’immagine della presidenza, i primi passi in questa direzione non sono stati in verità particolarmente brillanti. Come ben ha testimoniato, la scorsa settimana, la vicenda di Rockey Vaccarella e del suo “spontaneo” e commovente incontro alla Casa Bianca con George W. Bush.

Rockey Vaccarella è un americano di anni 52 che, prima del passaggio di Katrina e della rottura degli argini, lavorava come manager in un ristorante fast food nella St. Bernard parish di New Orleans, una della parti della città che, da sempre tra le più povere, è stata anche tra le più devastate dall’alluvione. E proprio dalla St Bernard parish Rockey Vaccarella era spettacolarmente partito agli inizi di agosto diretto a Washington D. C., alla testa di quella che era, o meglio sembrava essere, una carovana di senza casa. Scopo del viaggio: chiedere udienza al presidente in persona, al fine di perorare la causa d’una rapida ed equa ricostruzione della città. «Qui dai noi – aveva detto Vaccarella prima del pubblicizzatissimo avvio della sua missione – il lavoro è lungi dall’esser finito. A New Orleans c’è ancora gente che soffre e voglio che il presidente lo sappia». Molti dei “grandi media” avevano, per l’occasione, rievocato il fantasma (ancora ben vivo, d’altronde) di Cindy Sheehan, la madre d’un soldato caduto in Iraq che, negli ultimi due anni, ha pacificamente assediato il ranch presidenziale di Crawford, in Texas, invano reclamando un incontro con George W. Bush, al quale pretendeva di chiedere direttamente ragione della guerra che le aveva rubato il figlio.

Ma quando, venerdì scorso, Vaccarella ha infine raggiunto la capitale, ogni ricordo di Madre Coraggio è immediatamente svanito nel nulla. O, per meglio dire, è irrimediabilmente naufragato nel ridicolo. Le porte della Casa Bianca si sono, come d’incanto, aperte di fronte al viaggiatore prima ancora che quest’ultimo si fosse preso la briga di bussare. E lo spettacolo da Vaccarella offerto allorquando è infine apparso, al fianco di Bush, in una “improvvisata” conferenza stampa nei giardini della dimora presidenziale, è servito solo a dimostrare come, oltre alla casa ed al lavoro, l’ospite avesse, in effetti, perso anche la dignità.

Con un’enfasi che, a tratti, è sembrata creare imbarazzo allo stesso presidente, Rockey Vaccarella, non solo non ha in alcun modo protestato a nome della “gente che soffre”, ma ha, al contrario, entusiasticamente ringraziato il presidente per «i milioni di roulotte, tutte con aria condizionata, inviate nella zona del disastro». E rivolgendosi direttamente a Bush – che pochi istanti prima lo aveva apertamente lodato per la sua capacità di dire, con la rude sincerità d’un “vero americano”, pane al pane e vino al vino – ha aggiunto. «Signor presidente, io vorrei che lei potesse governare per altri quattro anni (vale a dire: fino al 2012 n. d. r.). Io credo che tutti in questo paese staremmo meglio, se lei potesse governare per altri quattro anni».

A qualcuno è parso d’ascoltare in sottofondo, mentre Vaccarella parlava, il dolce suono d’un concerto di violini. E non per caso, visto, che ad una sommaria verifica è risultato che, il medesimo Vaccarella – la cui esibizione è stata il giorno dopo, in virtù della sua intrinseca comicità, ritrasmessa senza alcun commento dal “Daily Show” – era stato, nel 1999, candidato repubblicano nelle elezioni per il Consiglio della St. Bernard parish. Ed il suo pellegrinaggio a Washington altro non era, in effetti, che l’ouverture della campagna di pubbliche relazioni che, oggi e domani, impegnerà il presidente in quello che molti analisti hanno senza mezzi definiti un classico “ritorno sul luogo del delitto”. Ovvero: un viaggio commemorativo di due giorni nelle zone dell’uragano. Un viaggio per dimenticare, si è detto. Ma per dimenticare che cosa?

Molte cose. E non tutte, ovviamente, direttamente legate all’ormai proverbiale inettitudine del presidente in carica. La prima: Katrina non fu affatto – almeno a New Orleans – la travolgente “forza della natura” che molti insistono a descrivere. Quando toccò terra, molti chilometri ad est della città, all’altezza del porto di Biloxi, in Mississippi, era un uragano categoria 2. Ossia: ancora forte, ma molto lontano, ormai, dalla devastante “categoria 5” spesa durante l’attraversamento del Golfo. E fu per questo che – per molte ore dopo l’atterraggio, prima che gli elicotteri potessero levarsi in volo per regalare al mondo le allucinanti immagini dell’alluvione – i media continuarono imperterriti ad affermare che New Orleans aveva, ancora una volta, “dodged the bullet”, evitato il proiettile del “grande uragano” (the “big one”) che i meteorologi vanno annunciando da quando, nel lontanissimo 1965, Betsy distrusse un quinto della città. Quello che causò la catastrofe fu, in realtà, il cedimento di argini messi insieme con lo sputo lungo canali – l’Industrial Canal soprattutto – costruiti per pure ragioni speculative. Più esattamente: non per proteggere la città già costruita, ma per aprire nuove parti della periferia alla speculazione edilizia.

New Orleans era stata fondata nel 1718 su un rilievo (ragione per cui viene ancor oggi chiamata “Crescent City”) cresciuto grazie ai detriti accumulati dal grande fiume. E da quegli stessi detriti, diventati chilometri di pantano tra la città e l’Oceano, era stata per oltre due secoli naturalmente protetta dalla furia degli uragani. Non per caso la vecchia città, quella del famoso Quartiere Francese, è rimasta praticamente intatta dopo il passaggio di Katrina.

Il disastro è, in realtà, cominciato molto prima che Katrina arrivasse. Ed è continuato dopo il suo passaggio – anzi, continua tuttora, diretta verso un futuro nel quale neppure s’intravvede la fine della tragedia – senza alcuna responsabilità di Madre Natura o del destino cinico e baro. Quel che la campagna di pubbliche relazioni di George W. Bush cerca di nascondere oggi è proprio questo: la storica corruzione che ha guidato la crescita della città nell’ultimo mezzo secolo, la mancanza di previsione di quello che tutti avevano previsto (il cedimento degli argini), il quasi surreale fallimento dei soccorsi culminato nell’altrettanto surreale frase con la quale – nel pieno dello scandalo, mentre centinaia di cadaveri galleggiavano nell’acqua putrida e migliaia di poveracci apparivano abbandonati a se stessi sui tetti di case allagate o nell’inferno del Superdome – George W. Bush si complimentò in diretta televisiva con Michael Brown, un ex organizzatore di concorsi per cavalli arabi, divenuto per ragioni politico-clientelari capo della FEMA (Federal Emergency Management Agency): «You’re doing a heckuva job, Brownie». Stai facendo un gran lavoro Brownie…
Ed un gran lavoro stanno facendo anche coloro che, nell’anno trascorso, hanno concepito ed organizzato il processo d’una ricostruzione che, in pratica, ancora non è cominciata. E che si preannuncia, non solo lenta, ma decisamente selettiva. Prima dell’uragano, New Orleans aveva quasi mezzo milione d’abitanti. Ora ne ha poco più di 200.000. Se ne sono andati – perché morti o perché tardivamente evacuati – soprattutto i poveri (e soprattutto i poveri neri), disseminati, dispersi in una miserabile diaspora che non prevede ritorno, degno seguito del macabro “reality show” che le telecamere regalarono un anno fa al mondo. Quella che emergeva dalle immagini dell’alluvione, sottolinearono tutti in quei giorni, non era che era il riflesso dolente d’un America povera ed invisibile, nera e dimenticata, la versione riveduta e corretta (ma per nulla migliorata) di quella “Altra America” che il sociologo Michael Harrington aveva descritto in un celeberrimo saggio del 1962.

Quell’America è, ora, di nuovo sparita. Sparita prima che il potere politico cominciasse, di fatto, a spendere le enormi somme stanziate per la ricostruzione. Centodieci miliardi di dollari (o giù di lì) che – fin qui bloccati da non del tutto casuali complicazioni politiche e burocratiche -, troveranno, quando e se finalmente arriveranno a destinazione, una città già “naturalmente” liberata dalle sue scorie di povertà accumulata. Niente poveri, più spazio per “veri” investimenti. Molti – seppur al momento contraddetti da fatti e cifre – prevedono un brillante futuro economico per la nuova Nuova Orleans…
La settimana scorsa, nell’avvicinarsi dell’anniversario, HBO (un canale della Time Warner) ha trasmesso le quattro ore d’un bellissimo documentario – “When the Levees Broke” quando si ruppero gli argini – girato da Spike Lee. E significativo è il fatto che la parte più veritiera, più rivelatrice della pellicola sia a molti apparsa, paradossalmente, proprio quella in cui racconta una “menzogna”. Ovvero: la parte nella quale gli abitanti superstiti della poverissima Lower Ninth Ward – che è ancor oggi un cumulo di rovine nel fango e che, il 29 agosto del 2005, fu la prima ad essere invasa dalle acque uscite dagli argini spezzati dell’Industrial Canal – sostengono che quegli argini vennero abbattuti volontariamente per cacciare gli abitanti della zona.

A sostegno d’una tale teoria cospirativa non vi è, ovviamente, che la rabbia di chi l’enuncia. Eppure chiunque lo voglia può facilmente udire, in quella rabbia, una verità a suo modo più profonda e più autentica di quella descritta dai fatti. La verità d’un paese la cui sempre più lacerante divisione tra ricchi e poveri è, in fondo, la vera sostanza della presidenza di George W. Bush. Mickey Vaccarella ha viaggiato più di duemila chilometri, da New Orleans a Washington, per nasconderla. Ma non c’è riuscito…