Nessuno chiede agli zingari

Viaggio nei campi profughi dove da sei anni vivono decine di migliaia di rom espulsi a forza dal Kosovo, e rimasti privi di tutto. «Non ci sono più aiuti, né locali né internazionali, e non c’è lavoro. Ma non possiamo nemmeno tornare a casa, siamo minacciati di morte»

«Sei del manifesto? Allora conosci Rossana Rossanda? Ti prego salutala, lei è stata per me un mito quando ero studente in Germania alla fine degli anni Sessanta». A parlare è Rajko Djuric, al secolo giornalista della Tanjug ma soprattutto famoso per essere il «re degli zingari». O meglio l’«ex-re», perché a quella carica è stato eletto dal congresso mondiale degli zingari per ben due mandati dal 1990 al 2000, poi è stato presidente del congresso mondiale e ora dirige il Centro internazionale degli zingari di tutto il mondo e da «re» ha pubblicato molti libri sulla condizione degli zingari, tradotti anche in Italia dove ha accompagnato dal papa nel 1991 la prima delegazione rom mai entrata in Vaticano. Siamo a Zemun, grande sobborgo storico di Belgrado che degrada verso immense periferie e poi la vasta pianura dove la Sava entra nel Danubio scuro e limaccioso. Non fa ancora quel freddo pungente dei Balcani, fastidiosamente piove, l’umidità entra nelle ossa. L’appuntamento per andare a vedere come vivono i rom cacciati dal Kosovo era nell’area dell’ex ufficio degli zingari della Serbia a ridosso di una delle tre sedi della televisione rom e davanti ad un piccolo supermercato cinese dai prezzi bassissimi che vende di tutto. «Vedi questa strada – dice Jovan Donyanovic, presidente dei rom serbi, indicando la via che proviene direttamente dal sud e attraversa i nuovi agglomerati e le vecchie isbe basse dei contadini inserite ormai a forza nella città di più di due milioni di abitanti – su questa strada in questo punto esatto dove io e te stiamo parlando, nel luglio 1999, a solo un mese dall’ingresso delle truppe Nato ho visto arrivare una fila sterminata di decine di migliaia di zingari, affamati, disperati che marciavano, arrivati con mezzi di fortuna e senza niente addosso, con sacchetti di plastica della spesa come valigia, arrivavano tutti in fuga dal Kosovo e non c’erano telecamere dei network internazionali a riprenderli. Raccontavano fatti che i rom avevano patito solo durante la seconda guerra mondiale sotto i nazifascisti: stupri, violenze, bambini uccisi. E’ purtroppo tutto documentato dall’Onu. Nel silenzio del mondo il nostro popolo ha sofferto la pulizia etnica e le violenze razziali».

All’estrema periferia, a ridosso dell’autostrada che va a nord verso Novi Sad, si aprono zone industriali abbandonate con poche fabbriche in funzione. In una di queste, l’area dell’ex stabilimento della fabbrica Grmec, tra capannoni da anni serrati, gru arrugginite, catene montuose di rottami e pozzanghere come laghi si stende una delle tante baraccopoli di rom fuggiti dal Kosovo, che vivono nelle capanne fatte di gesso e cartone, a volte con muratura improvvisata, che una volta erano usate come spogliatoi dagli edili che hanno costruito i complessi industriali.

Impauriti ancora adesso

Ci accompagna Gashi Cerim: parla sottovoce, anzi è proprio restio a parlare. Ma poi si lascia andare quasi a un’invettiva: «Abbiamo avuto tanto terrore – tira fuori i documenti che provano che è presidente dei rom di Lipljan in Kosovo – e siamo ancora impauriti adesso. A Lipljan c’erano tremila rom, già sotto i bombardamenti molti di noi sono scappati, non si poteva vivere. Ma il genocidio è cominciato dopo il bombardamento. Siamo stati costretti a lasciare le nostre case sotto la minaccia degli albanesi normali, non dell’Uck, dei civili. Lì avevamo negozi, case, macchine, terre, eravamo una comunità integrata e vivevamo bene. I rom erano artigiani del legno. Io ero meccanico. Avevo tanti amici albanesi che mi dicevano di stare tranquillo che non sarebbe successo niente, ma abbiamo scoperto che avevano paura anche loro. Così non ci ha aiutato nessuno. Le nostre case? O le hanno bruciate o sono state occupate dagli albanesi. Parlano tanto di indipendenza, ma perché nessuno chiede agli zingari che cosa pensano dell’indipendenza? Certo noi non torneremo più a queste condizioni. Molte nostre abitazioni risultano vendute, ma i contratti sono falsi, il catasto del Kosovo è stato tutto manipolato». «Ho fatto la stessa domanda all’amministratore Onu Michael Steiner – parla il «re» Rajko Djuric che guida la nostra carovana – nel 2003 in Germania e gli ho ricordato che dopo gli albanesi e i serbi gli zingari erano il terzo popolo del Kosovo. E lui prima è cascato dalle nuvole, poi si è arrampicato sugli specchi è non è stato capace di rispondermi. Secondo gli stessi dati dell’amministrazione Unmik-Onu, fino al giugno 1999 c’erano in Kosovo 260.000 rom sparsi in 193 comunità, ne rimangono 29.656 in sole 26 località. Anche l’unico vero intellettuale kosovaro-albanese, Veton Surroi, ha definito `fascista’ la pulizia etnica e gli eccidi di zingari, ne sono stati uccisi più di cento. Solo in Kosovo i rom sono odiati perché hanno raccontato che si sono schierati con i serbi. dimenticando che la maggior parte delle comunità viveva integrata con tutti e spesso in località dove i serbi non c’erano proprio. Invece non sono mai stati odiati in Albania. A Pec gli zingari erano più di 20.000, molti quelli ricchi e benestanti, ne restano sotto assedio 1.100; a Obilic erano 7.000 ora sono 500, a Gnjlane erano 7.000 e sono 250, 5.000 a Vucitr rimangono in 300, e sono tutti scappati quelli di Pristina, Pec, Djakovica, Lipljan, Podujevo, Urosevac. Con tante donne violentate, alcune per disprezzo ulteriore, davanti al suocero o al marito, e tanti, tantissimi scomparsi. Alle Nazioni unite sanno tutte queste cose, le hanno anche documentate, ma non è mai successo niente. A Pristina poi ci sono stati attentati contro le sedi dell’Onu, addirittura tre quest’estate. Sappiamo da funzionari dell’Unmik che vogliono mantenere l’anonimato che gli estremisti albanesi vanno ogni giorno nelle case dei pochi rom rimasti minacciandoli con questa semplice formula: se dite qualsiasi cosa contro l’indipendenza c’è una pallottola per voi. I rom non li protegge nessuno, viviamo lì peggio dei serbi. Sì, peggio dei serbi».

Entriamo dentro una baracca a tre vani, scura e affumicata dentro, c’è la televisione accesa su un programma cult in Serbia: una specie di reality dove una coppia prova a sposarsi per 24 ore. Entrando qualche calcinaccio cade, ci scusiamo per l’intrusione, dentro stanno cucinando ma fa più freddo che fuori, bambini dappertutto, ne contiamo sei, fuori ce ne sono decine, qualcuno addirittura scalzo, tutti malvestiti, visibilmente malnutriti. «Qui abbiamo la luce che paghiamo cara, 30mila dinari al mese, l’acqua invece non c’è, non ci regala niente nessuno e ormai non si vede più assistenza o aiuto né locale né internazionale, ma non vogliamo elemosine, vogliamo lavorare», dice Krasnici Raghib. Viveva presso Majora, vicino Lipljan, una frazione di 50-60 case di rom, qualche zingaro ashkali è rimasto; ha 11 persone in famiglia, tutti i figli, la nuora, i figli della nuora; la moglie è morta di tumore in questa baracca due anni fa, ora ha due figlie piccole da mantenere che non hanno madre. Intanto la stanza si riempie di molti vicini, ognuno racconta la sua storia. Krasnici Raghib aveva due appartamenti e una casa dove viveva, lui era minatore scelto nella miniera di Golesh, anche la moglie e il figlio lavoravano in miniera. Adesso non hanno lavoro, «viviamo con la raccolta di carta e ferro che troviamo nei container che lasciano nella zona industriale» dice Fadi, il genero di Raghib. E le vostre case?chiedo a tutti quelli che ormai riempiono la baracca: «Sono arrivati gli albanesi e le case sono state bruciate – rispondono quasi in coro – tutte bruciate. Come possiamo tornare senza protezione e senza le nostre case? Eravamo minacciati ogni giorno, facevano il segno del coltello che taglia il collo. Perché non ce lo vengono a chiedere a noi che pensiamo dell’indipendenza?». «Noi siamo la prova di quanto sarebbe ingiusta l’indipendenza di una sola etnia – risponde Raghib – ma se torno trovo il coltello, è la democrazia del coltello. Vogliono vivere soli, che vivano da soli. Che torno a fare e che mondo è questo?».

Parlano senza speranza, parlano rom, la musicalità di una lingua preziosa e ricca irrompe nella miseria circostante. Ridono, perché ci presentano le piccole del campo che arrivano a frotte anticipate da Saba e Sirya, di 8 e 6 anni, le due figlie di Raghib e dalla piccola «zia» Bera di 9 anni. Hanno occhi luminosi e neri, sembrano irreali. Vengono dal silenzio. Nero è il loro cielo.

Proprio sul Danubio, tornando verso Belgrado, dopo il ponte di Pancevo il polo industriale chimico devastato dai bombardamenti della Nato e considerato, dopo Chernobyl, il posto più inquinato d’Europa, si stende Karaburma (anello nero), l’altra immensa baraccopoli di zingari cacciati dal Kosovo, con una predominanza di persone che vengono da Djakovica, Pec e Pristina. Aveva ragione Raiko Djuric a dire che a paragone il campo di Grmec era oro. Qui non ci sono nemmeno le finte murature e i calcinacci di gesso, ma solo cartone, lamiere e tende. Ed è qui che incontriamo una comunità di «cittadini», la famiglia Ghalyc che viene dalla capitale del Kosovo. «A Pristina – ci racconta il capo famiglia Vojan – nella via Moravska vivevano più di 22.000 rom, avevamo case a due tre piani, terre, officine, aziende artigiane, c’erano professionisti, intellettuali. Ora non ne è rimasto nemmeno uno. Così come hanno costretto a fuggire la piccola comunità ebraica di Pristina, ma nessuno lo racconta. Anche la comunità croata di Jajevo (agnello) è dovuta scappare».

«Noi non esistiamo»

«Vedi che bel servizio ha fatto il nazionalismo – commenta il «re» Raiko Djuric – nella Federazione jugoslava abbiamo avuto anche un ministro zingaro, Drakisha Svetkovic, e ora siamo solo profughi o ospiti. Se i serbi cacciati dal Kosovo sono cittadini di serie B nella Serbia dilaniata dalla crisi economica, senza lavoro e prospettive, dove la vita è cara come in Europa, noi zingari semplicemente non esistiamo. Così vaghiamo qui, in Macedonia, in Italia, soprattutto a Milano; molti, 46.000, sono arrivati in Germania perché anche quando c’era l’embargo rimaneva il canale aperto con l’Ungheria. Da lì era facile entrare in Germania. Ma ora non passa settimana che un po’ alla volta con vagoni e pullman li rispediscono «a casa»: non in Kosovo naturalmente, ma qui in Serbia».

Ora il Parlamento mondiale dei rom che sta per riunirsi si prepara a chiedere i danni di guerra perché nei loro confronti è stato perpetrato un genocidio e per pretendere dalle Nazioni unite e dalle corti internazionali che siano trovati i colpevoli. Ma è una storia che sembra avere perso la sua colonna sonora di speranza.

Nei campi che abbiamo attraversato abbiamo chiesto che fine ha fatto la musica. Preferiscono non parlarne. Non che non amino i loro ottoni. Ma si sentono strumentalizzati dai serbi. Prima li usavano in testa alle loro battaglie, ora esportano la musica rom che in fondo considerano solo folklore ma con l’etichetta dell’ultimo Goran Bregovic che invece «è arte». Se i Balcani sono le banlieue d’Europa, gli zingari che cosa sono?