«Nessuna pace senza gli iraniani»

Vali R. Nasr è uno studioso di questioni Mediorientali affiliato al Council on Foreign Relations, importante “think tank” indipendente americana. E’ autore di diversi libri sull’Iran e, ultimamente, di “The Shia revival”, il revival sciita.

Lei parla nel suo libro di revival sciita, ma afferma che non esista un’agenda politica comune.

Ogni Paese ha le sue specificità ed in ognuno di essi i movimenti sciiti adottano un proprio programma. Il minimo comune denominatore è la richiesta di maggior accesso alla gestione del potere. Le questioni sono diverse da un posto all’altro, ma le popolazioni sciite sono da sempre quelle più povere e emarginate. Gli sciiti in Bahrein, Arabia saudita o Libano hanno delle leadership differenti. Non esiste un Papa che faccia da guida per tutti. Ci aveva provato Khomeini, ma il suo tentativo è fallito. Per questo è fuorviante l’idea del mondo sciita guidato con il telecomando da Tehran. In Arabia saudita gli sciiti, che sono una minoranza, vogliono maggiore rappresentanza, in Bahrein, dove sono maggioritari, chiedono di poter guidare il Paese. Tutti chiedono di poter adottare più che il modello Ahmadinejad, il modello Sistani: una testa un voto. I dati demografici, del resto, sono dalla loro. Sullo sfondo c’è anche un problema identitario la cui causa è l’atteggiamento delle leadership sunnite. Un po’ come gli ebrei in Europa, gli sciiti hanno sempre subito i pregiudizi dei sunniti ed oggi cercano il riscatto.

L’Iran svolge comunque un ruolo attivo, non foss’altro come soggetto finanziatore…
E’ vero. L’Iran finanzia gli Hezbollah, ma la partita che si sta giocando oggi è soprattutto politica. Tehran vuole far capire all’Occidente che non ci può essere nessuna pace in Medio oriente senza il loro apporto. I conflitti in Afghanistan, Iraq ed oggi in Libano hanno indebolito i regimi filo-occidentali in Egitto, Arabia saudita e Giordania che si sentono minacciati da delle masse popolari che non sanno più rappresentare e la cui frustrazione nei confronti dell’aggressività degli Stati uniti e di Israele nella regione è sull’orlo di esplodere. L’Iran vuole anche far capire che la soluzione non passa attraverso l’uso delle armi. Il fallimento dei tentativi dell’Onu di bloccare i programmi di arricchimento nucleare sono il sintomo di questo problema. Tehran sa benissimo che, visti i precedenti, nessuno può pensare di sferrare un attacco contro i suoi impianti e risolvere la questione. Lo stiamo vedendo con quanto accade in Libano, dove la resistenza opposta a Israele dagli Hezbollah ha fatto diventare Hassan Nasrallah un eroe il cui ritratto è venduto in tutto il mondo arabo. Questo è il punto che Tehran sta cercando di affermare in questi mesi e gli eventi gli stanno dando inevitabilmente ragione. E’ una vittoria politica ormai conclamata. Non ci sarà nessuna pace, dall’Iraq al Libano, senza un riconoscimento di potenza regionale all’Iran. Ma questo serve a Tehran per normalizzare i rapporti non soltanto con gli Usa, ma soprattutto con i regimi sunniti nell’area che, come ho detto, sono sempre più deboli.

Una carta che i regimi sunniti stanno però cercando di usare in chiave anti-iraniana è quella del settarismo contro gli sciiti
Questa è una strategia che è cominciata già negli anni ottanta da parte soprattutto dei regimi baathisti. Se sentiamo oggi i discorsi, gli sciiti non parlano mai di divisioni all’interno del mondo musulmano, sono soltanto i sunniti a farlo. Khomeini parlava di islam. Gli Hezbollah parlano di islam. Sono gli wahabiti a lanciare le fatwa per l’uccisione degli sciiti che etichettano come dei “non-musulmani”. E’ per rompere questo isolamento e per superare le divisioni per le strade del mondo arabo che l’Iran gioca la carta della questione palestinese. Gli Hezbollah e Tehran stanno superando i settarismi cavalcando una questione unificante come la lotta ad Israele e, così facendo, aumentano i propri consensi popolari. Tuttavia ci sono oggi degli elementi del radicalismo wahabita e salafita, non soltanto in Arabia saudita, che potrebbero voler cercare un’escalation dell’odio settario per sminuire il ruolo dell’Iran.

Com’è cambiata la politica iraniana nella regione rispetto alla rivoluzione degli anni ’80?

Le cose sono diverse, sono in pochi quelli a Tehran che pensano ancora ad un controllo diretto su Paesi stranieri. Oggi è in gioco piuttosto l’estensione della propria sfera di influenza e la possibilità di fare buoni affari con tutti. Mi è rimasto impresso un incontro con un generale turco preoccupato dalle spinte indipendentiste curde. Mi raccontò cosa gli avevano detto gli iraniani: «Voi vi preoccupate troppo dei curdi, fateci piuttosto degli affari». L’integrazione economica con i vicini è una delle chiavi per capire la politica di Tehran. E’ finito il dogma nazionalistico degli anni ’80, oggi si guarda alla regione in maniera strategica. Perché avere una leadership sciita può andare bene per il Libano, ma magari non in Bahrein. Il nazionalismo iraniano spinge per diventare una potenza regionale, ma questo incontra le forti resistenze dei regimi arabi sunniti, di Israele e degli Stati uniti. Washington sbaglia a non parlare con l’Iran. La questione libanese, la retorica spropositata del presidente Ahmadinejad sono solo pretesti per non affrontare la questione arabo-palestinese e a non prendere atto di un Paese in ascesa. Una nazione che, al di là delle idiozie del suo presidente che in questo momento è funzionale ad un disegno politico, vuole asserire la propria egemonia nella regione sulla base di una propria identità nazionale, dei propri interessi economici e all’interno di un’ideologia islamica.