Hugo Fazio è della vecchia guardia di Salvador Allende. Il presidente dell’Unidad popular, il giorno dell’insediamento alla Moneda, lo chiamò alla presidenza della Banca centrale. Hugo Fazio ci rimase fino all’ultimo. Fino all’11 settembre del 1973.
Il Cile vanta indici macroeconomici da Paese ricco. Esiste davvero il miracolo economico cileno?
Sì, ma è tale per il 2% della popolazione. In Cile la distribuzione del reddito è una delle peggiori del pianeta. Nella statistiche della Banca mondiale risultiamo tra i dodici Paesi con la forbice sociale più larga. La cifre che si diffondono a Santiago tendono ad occultare la verità. Il reddito non è concentrato nel dieci per cento, come risulta nei dati ufficiali, bensì nel 2 per cento della popolazione. I disoccupati, secondo le cifre dell’Istituto nazionale di statistica, sono il 7,6 per cento della forza lavoro. Le rilevazioni dell’Università del Cile danno il 3 per cento in più. A questi va sommato il 3 per cento della forza lavoro che vive dei programmi d’emergenza del governo che per creare posti fittizi stipula contratti con le imprese private. Poi ci sono i sottooccupati. Nelle statistiche ufficiali non figurano, ma sono almeno l’8,5 per cento dei lavoratori cileni. A tutti questi vanno aggiunti gli inattivi, quelli che non hanno lavoro e hanno smesso di cercarlo: un altro 3 per cento. Quando si parla di miracolo cileno si dovrebbe cominciare col discutere questi dati.
Qual è la questione economica più urgente che dovrà affrontare il governo Bachelet?
La meno visibile, ma la più insidiosa nel lungo periodo: il tipo di cambio. La Bachelet ha annunciato un programma di continuità assoluta rispetto al governo Lagos, ma sulla questione cambiaria sarà difficile che mantenga la politica del suo predecessore. In Cile la Banca centrale non partecipa alla decisione di quanto vale la moneta nazionale. Il prezzo del “peso” è stabilito dal mercato valutario in base a quanta moneta straniera entra e esce dal Paese. Poiché il prezzo del rame è al momento molto alto, l’entrata di dollari è alta. Questo valore del “peso” genera la versione cilena della malattia olandese: sta succedendo in Cile quello che accadde in Olanda negli anni Settanta, quando la scoperta di grandi giacimenti gas e petrolio poi esportati aumentò all’improvviso l’entrata di moneta estera. Ciò rivalutò velocemente il fiorino. In Cile sta accadendo lo stesso fenomeno con gli stessi cattivi sintomi: una industria ne trae profitto, quella del rame, e il resto dei settori esportatori ci rimettono. La vendita di vino e di manifatture verso l’estero è in difficoltà. D’altra parte le importazioni sono facilitate perché i prezzi dell’import si stanno abbassando attraverso due vie: il mercato valutaria e gli accordi di commercio con gli Stati Uniti. La tassa di ricarico sui prodotti importati è del 2 per cento: straordinariamente bassa.
La Banca centrale ha ampi poteri in materia valutaria. Non ha bisogno di una legge per intervenire. Non lo fa per decisione politica, perché si muove lungo le linee rigide del Consenso di Washington. Pura ortodossia liberista. Il centrosinistra ha finora mantenuto intatto il modello neoliberista ereditato da Pinochet. Ma non è detto che la Bachelet segua lo stesso identico cammino. Alejandro Foxly, democristiano, ex ministro dell’industria ora senatore, probabile ministro della Bachelet, recentemente ha pronunciato appassionati discorsi in favore di un intervento governativo sul mercato cambiario. Ci sono poi due piccoli segnali politici che fanno supporre un’inversione di rotta: sono due mesi che i tassi d’interesse sono paralizzati e contemporaneamente il governo ha smesso di collocare bonos in dollari. Siccome il mercato è libero, i bonos in dollari tendono ad abbassare il valore della moneta statunitense: invece di comprare dollari è più conveniente comprare bonos che offrono tassi d’interesse. Questo riduce la richiesta di dollari e facilita il processo di rivalutazione del “peso”. Credo che la Bachelet si muova su questa strada.
Questa elezione cambia qualcosa nella posizione del Cile rispetto agli altri Paesi del Cono sur?
I vincoli economici che abbiamo con gli Stati Uniti ci collocano in un ruolo preciso. Il Cile è un alleato fedele degli Stati Uniti. Nel vertice delle Americhe a Mar del Plata a novembre questo si è visto chiaramente. Brasile e Argentina hanno concordato una posizione comune con il Venezuela, mediando con Caracas perché la posizione di Chavez era più radicale rispetto a quella di Lula e di Kirchner. Il Cile non ha accettato. Si è schierato con gli Stati Uniti. Poi c’è stata la riunione della Organizzazione mondiale del commercio a Hong Kong. Lì il Cile si è trovato in difficoltà: interessa a noi come ai brasiliani che Europa e Stati Uniti smettano di dare sussidi alla produzione agricola. Siamo anche noi un Paese agroesportatore. Però quando si tratta di cercare nuovi mercati attraverso una collaborazione sud-sud il Cile è fuori dal gioco perché ha già firmato il firmabile con gli Stati Uniti e ha un accesso ai mercati del nord assai facilitato rispetto agli altri Paesi. E’ isolato nella politica economica continentale. Ha già scelto un altro cavallo. Si limita a un discorso latinoamericanista. Nell’ultimo vertice del Mercosur a Montevideo il presidente Lagos si è esibito in un appassionato discorso latinoamericanista, ma non ha deciso nulla di concreto riguardo alla ricerca di mercati latinoamericani.
Rimane qualcosa in piedi dell’era di Allende nella struttura economica cilena?
Credo che le trasformazioni fondamentali decise da Allende siano tuttora il pilastro della economia del Cile. L’intervento di Pinochet le ha stravolte, ma il suo regime e i governi del dopo dittatura hanno comunque continuato a goderne. Codelco, l’industria del rame, ne è un esempio. E’ la migliore industria del Paese, è pubblica ed è il prodotto della nazionalizzazione del rame. Durante la dittatura è rimasta pubblica perché finanziava, e finanzia tuttora, gli acquisti delle forze armate. Il 10 per cento della vendita del rame va alle forze armate. Imposta assurda. Ingiustificabile economicamente, contraria a qualsiasi criterio tributario. Pinochet trasformò una tassa già esistente stabilendo il trasferimento alle forze armate del 10 per cento delle vendite di Codelco. Ora che il prezzo del rame è molto alto, alle forze armate arrivano palate di soldi che finiscono in un fondo comunque amministrato dai militari.
La forza di ricatto dei militari sul Cile si è dissolta?
Formalmente sì, ma sostanzialmente no. Ne è una prova la vendita illegale di armi all’Ecuaor e alla Croazia, uno dei guai di Pinochet. Traffici nati durante il regime, ma proliferati mentre con il centrosinistra al governo.
Difende tutto delle scelte della Banca centrale durante il governo Allende? Anche gli strani prestiti che la Banca faceva puntualmente al governo?
Sì. Economicamente è una mostruosità, ma politicamente era necessario. Il ruolo della Banca centrale doveva essere appoggiare Allende il più possibile. La lotta politica era molto intensa. Ogni approvazione del bilancio era un calvario. Il parlamento riceveva il progetto: le spese venivano approvate e i finanziamenti no. Il governo aveva le mani legate. Per questo dovevamo emettere prestiti, prestiti contro futuri guadagni. La figura formalmente è indifendibile ma politicamente era dovuta e ovvia. Altrimenti il governo sarebbe restato senza capacità di azione. E la Banca centrale era un’entità omogenea, direttamente designata da Allende, che si è trovato per tutta la durata del suo governo sotto ricatto. Eternamente tra l’incudine e il martello.