«Nessun disarmo dei campi senza il diritto al ritorno»

Il leader di Fatah in Libano respinge il diktat di Usa, Francia e Kofi Annan per la consegna delle armi della resistenza

INVIATO A TIRO (Libano)
«Siamo qui nei campi in Libano da oltre 50 anni e siamo pronti a dare la vita per difenderli da chiunque voglia cancellare noi e la nostra autonomia politica e per ottenere il riconoscimento dei nostri diritti a cominciare da quello al ritorno e al risarcimento sancito dalla risoluzione Onu 194». Sultan Abu Alaynen, comandante politico-militare di al Fatah in Libano, condannato a morte da un tribunale locale, appare determinato, come non mai, a far si che la comunità internazionale non possa dimenticarsi dei profughi palestinesi ed in particolare di quei 400.000 cacciati dal loro paese nel 1948 e da allora abbandonati a se stessi nei campi in Libano. Come se le Nazioni Unite – e quindi la comunità internazionale – avendo arbitrariamente diviso in due la Palestina nel 1948 non avessero una piena responsabilità nella loro tragedia. I rifugiati in Libano del resto, non sono solo quelli più discriminati e costretti a vivere nelle condizioni più miserevoli, ma anche coloro che più hanno portato avanti per anni e anni la «rivoluzione palestinese» pagando un altissimo tributo di sangue con migliaia di vittime. Basti pensare come Rashidiyeh, alla periferia di Tiro, sul mare, a soli 15 chilometri dal confine con Israele, dal 1973 all’aprile del 1981, venne colpito per ben 710 volte dagli israeliani che rovesciarono sul campo, definito «una base terroristica», oltre 15.000 proiettili. I morti furono in tutto 250. Nel 1982 durante l’invasione israeliana il campo venne di nuovo raso al suolo dopo una dura resistenza, e le vittime furono oltre 300. E di questoria Sultan Abu Alaynen è testimonianza diretta – dai corsi di strategia nelle accademie dei paesi dell’est alle mille battaglie contro gli israeliani ma anche, come nel caso della «guerra dei campi» (1985- 1987) con il movimento sciita di Amal, contro le varie fazioni libanesi ostili ai palestinesi e, in passato, anche contro le forze siriane. Rashidiyeh è uno dei campi profughi più meridionali del Libano. Un campo praticamente sul mare, tra immensi aranceti e bananeti che con la sua vicinanza alla terra natale rende ancor più concreta la privazione di una Palestina, non solo vivissima nel ricordo ma qui presenza concreta, con i suoi colori e profumi, sulle colline al di là del confine. Abbiamo incontrato Sultan Abu Alaynen in una grande sala attigua all’istituto per ciechi ed handicappati, l’unico di questo tipo, nell’ambito delle commemorazioni per il ventitreesimo anniversario del massacro di Sabra e Chatila. L’esponente palestinese si mostra assai preoccupato per i tentativi di destabilizzazione del Libano e della Siria e per le pressioni di Usa e Francia per un’applicazione rigida della risoluzione 1559, sul ritiro siriano dal Libano, già realizzato, e sul disarmo della resistenza palestinese e libanese, indipendentemente dal realizzarsi o meno di una pace regionale, dal riconoscimento del «diritto al ritorno» per i profughi e da una intesa generale sui diritti della popolazione palestinese in Libano. Gli abitanti dei campi ricordano bene i soprusi, gli arresti, i coprifuoco ai quali vennero sottoposti da parte della polizia libanese sino alla «rivoluzione» del 1969 quando il controllo dei campi venne assunto dalle organizzazioni della resistenza palestinese. Si stabilì così una sorta di extraterritorialità dei campi profughi che ora gli Stati uniti, la Francia e Israele, oltre alle destre libanesi, vorrebbero rimettere in discussione. Uno degli strumenti di tale destabilizzazione potrebbe essere, secondo Sultan Abu Alaynen, proprio la commissione di inchiesta Onu sulla morte di Rafiq Hariri che dovrebbe terminare i suoi lavori il prossimo ottobre: «Tutti noi vogliamo sapere la verità sulla morte di Hariri, amico dei palestinesi, ma la commissione sembra puntare più sulla politica che sui fatti e sembra voler favorire i piani israeliani e americani. Il governo di Washington, in difficoltà in Iraq, sembra deciso a portare avanti una destabilizzazione e un cambio di regime in Siria determinato com’è a non permettere l’esistenza di stati arabi moderni e laici. E per far ciò sono pronti a tutto». «Del resto – continua Sultan abu Alaynen – Usa e Israele non si sono fermati neppure davanti all’uccisione di Yasser Arafat, divenuto scomodo dopo il suo rifiuto a firmare la liquidazione dei diritti del nostro popolo. A tale proposito potete stare certi che troveremo i colpevoli e dovranno pagare per quel che hanno fatto».

Forse però le maggiori preoccupazioni l’esponente palestinese le riserva al piano Sharon sul futuro dei territori occupati: «Vedere l’esercito sionista lasciare la striscia di Gaza – sostiene sorridente – ha riempito il nostro cuore di gioia in quanto si tratta di un importante risultato della resistenza, ma anche di tristezza perché la striscia è diventata una sorta di grande prigione circondata dal filo spinato. Intanto il massacratore di Sabra e Chatila con la costruzione del muro, sta cercando di rendere impossibile la nascita di uno stato palestinese sovrano con capitale Gerusalemme est e quindi una pace giusta nella regione».