Nessun amico e troppi nemici

Sono molti i motivi di malumore per la finanziaria dell’Unione. Molte anche le perplessità sulla sua «anima» o «cuore» che dir si voglia. Difficile stabilire le ragioni di una crisi così rapida e profonda con i sentimenti di un elettorato certamente vasto ed eterogeneo. Ma se i nemici sono molti molto è anche il disonore, per un governo eletto come un’occasione come minimo riformatrice e non solo come un liberatore. E’ sull’università e il delicato mondo della ricerca scientifica però che si possono sintetizzare esemplificandoli i motivi di insoddisfazione. Per la mancanza di attenzione verso gli atenei protestano tutti: dai rettori- manager (all’italiana) alle matricole. Dai ricercatori sempre più precari agli accademici di chiara fama. Protestano le aziende, le famiglie, i sindacati, gli editoriali di tutta la grande stampa. E il governo non fa nulla. Anzi no. Si parla tanto dei fondi per la ricerca pubblica. Il ministro Mussi era partito chiedendo un aumento di 300 milioni di euro, si è poi via via scivolati attorno a quota 160 per concludere a 97 più 20 ottenuti dall’«emendamento Montalcini» più il «5 per mille» ripristinato a fatica solo dopo la protesta del terzo settore. Come saranno spesi questi soldi non conoscendo ancora nel dettaglio la famigerata «tabella C», ancora si sa ben poco. Quanti di questi soldi andranno all’università pubblica? Si sa molto di più invece su una cospicua pioggia di finanziamenti che prevista per la ricerca privata, la grande assente dalla scienza italiana. Le aziende che investono in ricerca otterranno il 10% di credito di imposta che diventa il 15% se stipulano accordi con le università e gli enti pubblici di ricerca. Con due miliardi di euro in più dalla Cassa depositi e prestiti al Fri, «Fondo rotativo per il sostegno alle imprese e gli investimenti in ricerca», creato nel 2005 per promuovere «un’economia basata sulla conoscenza». Scelte discutibili in un momento di vacche magre ma necessari se si guarda al deficit culturale dell’impresa italiana, incapace di rigenerarsi e di investire sull’innovazione. Il punto però è politico. Perché non aprire, per esempio da sinistra, un dibattito sulla necessitò di incentivare la ricerca privata nel nostro paese? Non è stato fatto nemmeno questo. Nonostante però per tutta la campagna elettorale si sia indicata la stella polare della ricerca come via d’uscita dal cosiddetto «declino italiano». E’ su questo che si consuma uno dei «tradimenti» dell’Unione con il suo «popolo». Un «tradimento» che si ripercuote con forza maggiore sulle sinistre, a partire dai Ds, che molte responsabilità hanno in questo settore in cui, non a caso, hanno chiesto e ottenuto un ministro politico e schierato come Fabio Mussi. E’ la Quercia il sismografo più sensibile delle proteste dell’«establishment» accademico. Ma è tutta la coalizione a dover rendere conto delle sue scelte a quello straordinario movimento degli anni scorsi che a partire dagli asili nido fino agli enti pubblici di ricerca ha resistito in piazza e lì dove poteva ateneo per ateneo alle mosse neoliberiste del centrodestra morattiano (e confindustriale). Cosa sia venuto da quelle riforme e lo stato della ricerca italiana sono oggi sotto gli occhi di tutti. Nei momenti di difficoltà e di pancia vuota per ricompattare le «truppe» è invece forse utile indicare chiaramente «il» nemico da combattere. Averne così tanti e così diversi è il primo dei problemi da rimuovere e il segno chiaro di una «non-scelta». Non può essere così. Il tempo delle scelte è qui e comincia adesso.