Nessun accordo vero, Usa senza più autorità

La riunione dei G20 appena conclusasi a Seoul é stata la più importante tra quelle tenutesi finora, mentre le precedenti erano soltanto delle kermesse populiste. Seoul ha costituito il banco di prova circa la capacità di pervenire ad un minimo di coordinamento per evitare che il sistema economico mondiale si impantani in una serie di conflitti destinati ad esacerbare la crisi in corso. La prova è stata però fallimentare su tutti i fronti. Nessun accordo circa gli squilibri mondiali e quindi nessun accordo circa i rapporti tra le monete. Affrontare questi temi é vitale per il nostro futuro immediato e per la vita quotidiana. Il fallimento di Seoul segna la fine dei G20 che diventa
ora semplicemente un’ulteriore passerella per alcuni leader politici di turno; come sarà nel caso di Sarkozy, che assume la presidenza del gruppo per i prossimi sei mesi.
L’impossibilità di coordinare i vari interessi capitalistici mondiali – che quando si arriva al dunque si cristallizzano in rapporti tra Stati – viene ulteriormente sottolineata dall’incapacità, da parte degli Stati uniti e della Corea meridionale, di accordarsi su misure che favoriscano lo sviluppo delle esportazioni statunitensi verso la Corea. Per Obama il trattato commerciale doveva costituire un primo e importante atto per la riduzione del deficit estero Usa, fulcro degli squilibri mondiali, segnatamente rispetto ai surplus cinesi, tedeschi e nipponici. Il trattato doveva anche rappresentare un risultato concreto da far pesare alla riunione di Seoul. Il fallimento senza appello della riunione dei G20 significa che i rapporti bilaterali tra la Cina e gli Usa diventano il canale principale per il trattamento dei problemi dell’economia mondiale.
In tale contesto, i termini dei rapporti tra i due paesi sono stati definiti proprio a Seoul, ma non come risultato di uno sforzo collettivo.
Washington, trovandosi sotto attacco per la politica di erogazione monetaria, ha abbandonato le pressioni per procedere alla definizione di un tetto per le «eccedenze» estere. Pechino, in cambio, ha sospeso la critica alla politica monetaria Usa, almeno ufficialmente.
Tutto sommato è il governo cinese ad uscirne meglio. Pechino è convinta che alla lunga Washington accetterà stabilmente la dipendenza dalle importazioni dalla Cina. Le industrie Usa continuano a delocalizzare, sia che il dollaro aumenti o cali; quindi gli Usa non sono in grado di mettere in cantiere una nuova politica industriale. Con i propri redditi in crisi, i prezzi delle merci cinesi sono per le famiglie statunitensi un modo per attutire il calo nel livello di vita. È vero che la politica monetaria statunitense impensierisce Pechino per via della speculazione che essa genera sui prezzi di materie prime e derrate alimentari. Tuttavia, ce ne vuole per rendere «non competitivo» il prezzo cinese. Il canale Cina-Usa ingloba il resto dell’Asia orientale, Giappone incluso, nonché il Brasile e l’Australia, in quanto paesi produttori di materie prime che con la Cina hanno sviluppato rapporti molto stretti. L’Europa sta invece da sola, intrappolata dal machiavellismo puritano tedesco e dal populismo farsesco di Sarkozy.