La guerra è persa in Iraq. O, per lo meno, gli Stati uniti non potranno mai vincerla, a credere all’81% degli americani (solo il 19% crede ancora in una vittoria, secondo un sondaggio Gallup). La copertina di Newsweek di questa settimana titola: «Stiamo perdendo, ma ancora non è persa». Una guerra paradossale: ci sono sconfitti, ma non vincitori. Ciò la rende diversa dal Vietnam (1963-74) in cui la disfatta Usa diede la vittoria ai vietcong e al Vietnam del Nord. In questo, l’Iraq somiglia più alla guerra di Corea (1950-53) in cui perirono 50.000 soldati Usa, 600.000 soldati e due milioni di civili coreani, e in cui, 53 anni dopo, 30.000 militari Usa ancora stazionano lungo il confine tra le due Coree.
A quattro giorni dalle elezioni di metà mandato, la guerra in Iraq è il tema più importante per il 36% degli elettori. Distanzia economia, sanità, immigrazione illegale e valori morali (cioè aborto, gay…) tutti temi al 18%, mentre il terrorismo è importante solo per il 15% (sondaggio del Wall Street Journal). Sono percentuali significative. Intanto ci dicono che gli statunitensi non si fanno più ricattare dalla minaccia terroristica sbandierata dal presidente George Bush, a meno che costui non tiri fuori all’ultimo dal cilindro – e dal surgelatore – il cadavere di Osama bin Laden.
Poi ci dicono che la guerra conta sì ma non è determinante: molti elettori voteranno in base a considerazioni economiche (sanità, economia) e sociali (immigrazione, politiche familiari). Vuol dire che la guerra può dare la vittoria ai democratici, ma dipende da come se la giocano. E la loro campagna non è esaltante. Per di più, anche con una forte affermazione in termini di voti, è quasi certo che non riusciranno ad assicurarsi il controllo di tutte e due le Camere, visto che si rinnova solo un terzo (33) dei 100 seggi del senato e che di questi 33 seggi solo 7 sono realmente in gioco: i democratici, che ora hanno solo 44 senatori, dovrebbero assicurarseli tutti e 7 per riprendersi la maggioranza.
E anche in caso di vittoria, si troverebbero per due anni di fronte un presidente, Bush, con tutti i suoi poteri: di veto, di capo supremo delle forze armate, oltre a quegli d’emergenza concessigli dal Patriot Act.
A parte alcune gaffe, ultima una del senatore John Kerry, la campagna democratica lascia a desiderare perché manca di aggressività, di cattiveria. Come se i democratici sperassero che George Bush si sconfigga da solo e che a disfarlo basti il conteggio sempre più alto dei caduti in Iraq e il costo sempre più astronomico della guerra che alla fine avrà dilapidato almeno 3 milioni di miliardi di vecchie lire (2.000 miliardi di dollari) secondo il calcolo del Nobel Joseph Stieglitz.
I democratici mancano di mordente perché sulla guerra ognuno la pensa in modo diverso dall’altro. Chi vuole andarsene entro un anno, chi entro due, chi vuole persino più truppe, chi vuole restare per decenni ma a contingente ridotto. I dirigenti democratici sembrano quasi soddisfatti di avere le mani legate in parlamento, anche in caso di vittoria elettorale. Il non poter far nulla li esime da una posizione univoca, chiara, decisa. Così, a quattro giorni dal voto, sono sempre in testa nei sondaggi, ma la loro morbidezza sta consentendo un lieve recupero ai repubblicani. Certo è che se i democratici riescono a non vincere neppure stavolta, sono davvero inguaribili.