Nell’America dei figli della cicogna nera

Eugenetica

Per oltre 50 anni medici e burocrati del servizio sanitario Usa hanno applicato ai bambini problematici principi dell’allevamento del bestiame: isolare ed eliminare i ceppi di qualità inferiore. Dunque, marchiati e rinchiusi in istituti «speciali». Michael D’Antonio in «La rivolta dei figli dello Stato», Fandango, ricostruisce la storia di un gruppo di questi ragazzi

Sulle colline prospicienti Boston alla metà degli anni Cinquanta si distendono due agglomerati per la cura delle malattie mentali. Il primo è composto dagli edifici simil-vittoriani del McLean Hospital. Qui, pazienti di estrazione aristocratica o altoborghese e celebrità del mondo artistico (poeti come Robert Lowell e Sylvia Plath) trascorrono le estati giocando a cricket o a tennis e gli inverni pattinando o sciando, immersi in un parco vasto e lucente che si dirama a perdita d’occhio senza che guardie, custodi, recinti o cancelli ne sanciscano la matrice manicomiale. Matrice che emerge, per contrappasso, nelle stanze adibite alla cura neuropsicologica, in cui si procede non solo all’idroterapia e alla cura del sonno, ma anche all’induzione dell’attacco epilettico attraverso metazol per «dinamizzare» gli stati psicotici, all’elettroshock e alla lobotomia sperimentale praticata secondo i dettami, a dir poco discutibili, del neuroanatomista portoghese Egas Moniz. A poche miglia dal McLean, sulla collina di Waltham, si erge invece l’ircocervo architettonico – metà castello, metà magione a mattoni rossi – della Scuola Statale Fernald per bambini «deboli di mente» (vedi ora il libro di Michael D’Antonio, La rivolta dei figli dello Stato, fondato su documenti inediti e numerose testimonianze). A differenza che al McLean, qui le stesse procedure terapeutiche estreme non godono di alcuna emulsione ambientale.

Alla Fernald non si accede per scelta, ma per una coazione conseguente a dilettantesche valutazioni di quozienti d’intelligenza; non vi si arriva su carrozze o berline d’ordinanza, ma su volanti della polizia o su auto scalcinate di assistenti sociali; non ci sono infermiere che assecondano i capricci del paziente servendo aragosta al posto dell’agnello, ma «sorveglianti» che instradano ogni momento dei «residenti» nello spazio-tempo chiuso e compressivo della più classica delle istituzioni totali.

Il bambino o il ragazzo recluso ne conosce in successione – in tempi scanditi dal suo adattamento più o meno problematico – le diverse sezioni: il Reparto 1, con camerate grandi come campi da tennis riempite da trentasei letti staccati di mezzo metro (alla lunga, il sovraffollamento porterà a cinquanta letti incastrati come mattoni di un lego); il punitivo Reparto 22, con celle d’isolamento e strutture adibite alla sperimentazione neurochirurgica e all’elettroshock; l’Edificio Nord o «fossa dei serpenti» (come nell’omonimo film di Anatole Litvak), plesso dal pavimento incurvato con un centinaio di degenti nudi – anziani gravemente disabili – usato occasionalmente come alternativa al Reparto 22 per piegare gli indisciplinati, costringendoli a pulire le feci e l’urina dai muri o dalle piastrelle; e infine la Stanza Blu, vano di docce per lavare quei corpi dalle loro emissioni incontrollate.

Nello stesso tempo, il «residente» della Fernald – un bambino come il nero Freddie Boyce, entrato a sette anni nel `49 e uscito nel `60, ed eletto da Michael D’Antonio a sotterraneo io narrante del libro – deve addomesticare lo shock plurimo della nuova situazione. Una volta incapsulato nella divisa con camicia, pantaloni di tessuto grezzo e scarpe nere, deve cioè affrontare, per un verso, l’aggressione di quello che un grande psichiatra come Harold F. Searles ha definito «l’ambiente non umano», rispondendo a un accerchiamento polisensoriale che passa per impatti visivi (il «verde pallido» delle camerate), olfattivi (il «cibo cotto» della mensa, causa di frequenti blocchi anoressici) e soprattutto auditivi, con il giorno e la notte tramati da «cacofonie assordanti», dai grugniti dei bambini più compromessi, dai «lamenti ritmici» e dai gemiti dell’Edificio Nord, e da un silenzio ancora più esasperante dei suoni che lo violano. Per un altro verso – anche se i due livelli, come è ovvio, non si possono disgiungere -, deve venire a patti con il personale della scuola e con i compagni.

I «sorveglianti» sono per la maggior parte cerberi sadici, inclini a un inventivo ventaglio di punizioni: James McGinn – il loro prototipo – alterna colpi di mestolo sul cranio, strattoni ai testicoli, costrizioni di positura (quella in equilibrio sulla rete del letto colla pressione sui tendini rotulei); mentre la più metodica Phyllis l’Antiqua si avvicina in silenzio alle vittime colpendole con schiaffi improvvisi o con percussioni simmetriche alle orecchie. Quanto ai compagni, nel gruppo vige una gerarchia col vertice occupato dai «Capi» – spesso i ragazzi più problematici sul piano psicosociale – e il fondo occupato dai «Tonti», quelli più inerti sul piano cerebrale.

E non sorprende che tra personale e internati si instauri una complicità opaca soprattutto a livello di ritualità sessuale. Essendo infatti episodici i rapporti con le donne – qualche bacio occulto o uno sfioramento di seno nelle sortite clandestine al Dormitorio Femminile – tutto si risolve in una promiscuità multipla: perché agli abusi dei «sorveglianti» sui «residenti» (dalle fellatio attive e passive alle masturbazioni alle sodomie) si assommano quelli dei «Capi» sui novizi, con tanto di protezione annessa, secondo schema carcerario. Così come, ancora secondo schema carcerario, i «sorveglianti» tollerano spesso le sopraffazioni dei «Capi».

Buona parte dell’aggressività e della tensione nella Fernald non è riconducibile però solo ai limiti costitutivi dell’istituzione di controllo (al «sorvegliare e punire»), alla chiusure delle prospettive psicologiche (coi cattivi puniti e i buoni mai premiati), alla scissione tra un «dentro» sociale alienante e un «fuori» inattingibile (e l’irruzione della televisione che accentua il fenomeno); è dovuta soprattutto all’alta percentuale di bambini «sani» che il carattere pseudoscientifico del test QI – poggiandosi sulla equivoca nozione di borderline – fagocita all’interno della scuola.

Nella sola Fernald si parla di un terzo del totale, ma la stessa percentuale è probabilmente estendibile a tutta l’ottantina di centri sparsi per il Paese, ospitanti, nell’insieme, centocinquantamila persone. Non è un caso che la progressiva revisione del test, a partire dalla fine degli anni Cinquanta, arrivi a dimostrare l’infondatezza di quell’assurdo proclama deterministico, e l’incidenza profonda della componente «ambientale» nell’articolazione psichica. Gli stessi bambini della Fernald, d’altronde, incarnano la smentita dell’assunto che li condanna, con la loro impressionante capacità di apprendimento e di rendimento nelle attività agricole e artigianali svolte all’interno dell’istituto.

Come si è potuti arrivare a forgiare un simile freak, clinico-cognitivo prima e sociale poi, con tanti percorsi di vita soppressi o deviati pesantemente? D’Antonio, giustamente, ripercorre alcuni passaggi-chiave lungo la parabola dell’eugenetica americana, distante anni luce – va precisato – da quella anglosassone fondata da Sir Francis Galton, cugino di Darwin e coniatore del termine. Ricorda così in sequenza l’applicazione acritica ed equivoca dello stesso darwinismo e del mendelismo da parte di scienziati «autodidatti» come R.L. Dugdale o Alfred Binet, l’inventore del QI poi applicato; l’attivazione di un programma eugenetico americano «per la purezza della razza», giuridicamente ratificato da una sentenza atroce come quella del Presidente della Corte Suprema Oliver Wendell Holmes jr. sulla chiusura delle trombe di Falloppio della giovane Carrie Buck (1924); la conseguente castrazione-sterilizzazione di sessantaseimila persone in trenta stati (per lo più ebrei, italiani, indios, arabi) e il vanto statistico – a tutto il 1949 – sui diciannovemila bambini non-nati e il relativo risparmio sociale di 117 milioni di dollari. Così come ricorda l’entusiasmo di Theodore Roosevelt per la selezione razziale e il foraggiamento dei grandi magnati (Rockefeller, Carnegie, Harriman) allo Eugenics Record Office (Ero).

La ricostruzione, però, pecca di alcune omissioni non trascurabili. Per completare il percorso bisogna risalire a un film del 1917, da D’Antonio appena citato: The Black Stork (La cicogna nera), opera dei fratelli Leopold e Theodor Wharton e annunciato, all’uscita, da un battage di locandine in cui l’uccello del titolo vede respinti i fagotti coi neonati da comignoli e porte con scritte discriminanti. Il film mostra un medico (il famoso Harry J. Heiselden, nella parte di se stesso) che convince la madre di un bambino afflitto da sifilide congenita a sopprimerlo, prefigurandole uno scenario – qui il film ha tratti da incubo espressionista – in cui il figlio criminale produce una intera «covata» di criminali, arrivando poi a uccidere i due medici che l’hanno messo al mondo. Terrorizzata dalla visione, la madre accetta di sopprimere il neonato, vedendone l’anima innocente – nelle ultime sequenze del film – prelevata da un Cristo più simile a Rasputin.

Ora, il punto, che è anche il correlativo ideologico del film, è condiviso da influenti pensatori del tempo come Clarence Darrow e Helen Keller e, di conseguenza, da larghi settori dell’opinione pubblica. Ma non è tutto. D’Antonio omette anche alcuni nomi dirimenti di scienziati. Il primo è quello di Alfred Ploetz, il medico tedesco attivo in Iowa e nel Connecticut e primo teorizzatore della «igiene razziale». Gli altri due sono quelli di Charles Davenport e di Harry Laughlin, fondatori dello Eugenics Record Office e di quel Cold Spring Harbour che tiene a battesimo nel 1933 il piano delle sterilizzazioni naziste (quattrocentomila) stilato dallo stesso Ploetz, nel frattempo tornato in Germania. Se si aggiunge la cattedra ottenuta da Laughlin ad Heidelberg nel 1936 e la sua operatività nella diffusione di testi tedeschi sulla selezione razziale in tutti gli Stati Uniti, si potrà comprendere meglio la natura di questo mutuo feedback.

Il delirante test sul QI e la sua funzionalità ideologica a certa America wasp (non dimentichiamo le retate poliziesche nelle bidonvilles di tante metropoli contro la «spazzatura biologica») sono dunque tasselli ricorrenti in un percorso ben connotato di pseudoscienza (pseudo-eugenetica) criminosa. E che sia proprio la burocratizzazione acefala di tale ideologia pseudoscientifica ad aver prodotto il monstrum della Fernald e di altre scuole consimili, lo afferma lo stesso Freddie Boyce una volta restituito alla vita del «fuori».

Quel Freddie Boyce che ha cercato di fuggire infinite volte dalla scuola e che è stato il capofila non tanto della pur decisiva rivolta «materiale» del 4 novembre 1957 (ispirata ai ragazzi dal movimento antirazziale di Little Rock), quanto della lenta rivolta «culturale» che porterà nel tempo all’esplosione del caso-Fernald con le foto di Fred Kaplan, alle scuse ufficiali di Clinton per le sperimentazioni del controverso psichiatra Clemens E. Benda sui ragazzi del Club della Scienza (costretti, Freddie incluso, ad assumere cibo radioattivo) e al relativo risarcimento. Quel Freddie Boyce che ha sempre saputo vedere tra le pieghe della Fernald non solo le tante figure non ordinarie del personale (sorveglianti incapaci di violenza come il signor Settipane, psichiatri aperti come Kenneth Bilodeau, assistenti sociali coraggiose come Abigail Bacon) ma anche l’opacità-ottusità dei carnefici, spesso provenienti da famiglie disadattate come quelle delle loro vittime e in ogni caso plasmati da un contesto intrinsecamente più crudele della loro crudeltà individuale.

Certo, la parte finale del libro – col racconto delle tante drammatiche riemersioni degli ex residenti, stritolati dalla paura di vivere più che da quella di morire – mostra come la Fernald abbia impresso su di loro uno stigma indelebile. Sia a livello sociale, negandogli quella formazione che li avrebbe facilitati nell’inserimento professionale; sia nelle profondità affettivo-emotive, tiranneggiandoli, come una casa-madre o matrigna, in una ambivalenza insolubile tra desiderio di rimozione e rimpianto patologico, al punto che molti di loro tornano compulsivamente a contemplarla. Ma la lucidità disincantata di Freddie è la sola vera uscita possibile: perché contenendo, nella sua visione d’insieme, la ristrettezza di quella dei suoi persecutori, tratteggia in controluce – e in un colpo solo – l’ incoscienza infelice e la cattiva coscienza di un intero Paese.