Organizzazioni umanitarie e singoli cittadini indignati, da tutto il mondo,
vogliono infatti portare davanti ai giudici l’esercito e il governo, e farli
incriminare per i crimini di guerra di cui si sono macchiati durante le 3
settimane di massacro a Gaza.
Pubblicamente vertici militari e governativi non paiono
preoccuparsene, dichiarano di avere prove tangibili per dimostrare che gli edifici bombardati erano basi logistiche utilizzate dai terroristi di Hamas.
Intendiamoci, stiamo parlando di più di 20 mila case danneggiate dalle
bombe, più di 1500 vittime delle quali l’85% sono civili.
Per accertarmi della precisione chirurgica con cui questi ipotetici centri
nevralgici del terrorismo islamista sono stati colpiti sono andato a Jabal
Al Dardour, nel nord della Striscia, una delle aeree più massicciamente
colpite dall’artiglieria israeliana.
Decine di edifici rasi al suolo, i mastodontici bulldozer corazzati che la
Caterpillar (da boicottare) assembla appositamente per l’abbattimento delle case palestinesi hanno dato manforte ai tank nella distruzione.
Tra le rovine ho visto uomini e donne cercare qualcosa di ancora
utilizzabile, qualche indumento, un paio di cartelle scolastiche ricoperte
di polvere, le foto di famiglia in cornici crepate.
Non ho visto resti di arsenali distrutti, ma solo edifici scoperchiati dove
s’intuiscono salotti, avanzi di stanze da letto, cucine ridotte in cenere.
Abu Omar, biologo molecolare, mi ha invitato a vedere ciò che è rimasto in piedi del suo appartamento, ma anche il suo vicino di casa, Osama, pediatra, ha la casa ridotta un gruviera.
La forza di propulsione dei missili ha trascinato contro il palazzo i frutti
dell’adiacente aranceto.
Il loro succo mescolato al sangue rappreso su un pavimento pareva la
tavolozza di un pittore naif.
Un anziano col capo fasciato da un kefia si è avvicinato per informarsi sul paese di provenienza di Natalie, nostra compagna dell’Ism è libanese.
Agitando nell’aria un bastone, come a disegnare un lungo arco, dinnanzi a quel panorama di devastazione le ha detto «Beirut e Gaza, stesso quadro, stesso artista». Anche la piccionaia di Osama non è stata risparmiate dalla ferocia delle detonazioni: i volatili giacciono al suolo come arresi ad un cielo più pesante di loro, pesante di «piombo fuso». «Hanno voluto annientare l’aviazione palestinese, o forse pensavano che i tuoi pennuti fossero staffette partigiane di Hamas…».
Ban Ki-moon lo abbiamo incrociato mentre ci muovevamo sul nostro sgarrupato taxi, un lungo corte di Suv nuovi fiammanti coi vetri scuriti e gli stemmi dell’Onu sgommava per Gaza city come se la terra gli tremasse sotto le ruote, in effetti è stato così fino all’altro ieri.
Girando nel puzzle non ricomponibile delle rovine di Jabal Al Dardour ho
sentito nominare il mio nome e voltatomi ho scorto la figura di Abu Ashrafa.
Ero stato alla veglia funebre di suo figlio, ucciso da un bombardamento nel mese di novembre, quando teoricamente secondo Israele e i media occidentali era ancora in corso una tregua.
Ha perso un altro parente, e la sua casa è stata buttata giù dalle
fondamenta. «Non un animale, non una pietra, non un ulivo ci hanno lasciato in piedi, non sono esseri umani»: così dicendo mi ha accompagnato nel suo uliveto.
Diversi ulivi, quelli secolari, sono stati strappati via dai bulldozer
israeliani.
Come per rifarsi di quelle vite che pare impossibile sradicare dalle loro
origini, dalla loro identità e brama di giustizia.
Poco distante un altro uomo di mezza età mi si è fatto incontro per
domandarmi se a mio parere ogni palestinese fosse un guerrigliero di Hamas.
Da una finestra della sua abitazione sventrata, sventolava una bandiera
gialla di Fatah. «Il nostro Kalashinkov è la nostra fede e il nostro onore,
difenderemo la nostra terra coi denti e con le unghie come difenderemmo nostra figlia da uno stupro». Se l’obiettivo d’Israele era d’isolare e debellare Hamas dalla Striscia, contemporaneamente soffiando sul fuoco di un popolo ultimamente frammentato in diatribe fratricide, Israele ha ottenuto l’esatto contrario, le bombe hanno in parte restituito unità nazionale a Gaza.
La cartina di tornasole di questa nuova situazione è rappresentata da
l’almukawama, la resistenza palestinese, eroica nel cercare di arrestare
l’avanzata dell’esercito di Tsahal. Le lunghe barbe degli islamisti delle
brigate Ezzedin al-Qassam, braccio armato di Hamas hanno combattuto a fianco dei pizzetti sbarazzini dei guerriglieri marxisti del Fronte Popolare, insieme ai martiri di al-Aqsa di Fatah. Solo il tempo saprà dirci se questa ritrovata unità delle milizie trova un suo riscontro nella società civile e in quella più politicamente impegnata.
Lasciando l’ambiente lunare dell’area spogliata di costruzioni di Jabal Al
Dardour, ci siamo soffermati davanti a un bambino imbronciato che se ne stava seduto su una collinetta di massi, quel che è rimasto del suo cortile di casa.
Gli abbiamo chiesto cosa passasse.
Nelle sue semplici parole lasciava intendere che Hamas e la sua resistenza fossero i responsabili di questa catastrofe.
Allora Fida, nostra compagna dell’Ism, con fare materno lo ha preso in
disparte e gli ha brevemente raccontato la sua storia.
Di come i soldati entrarono a Rafah nel 2004 e rasero al suo interi
quartieri, esattamente come è successo dove ci trovavamo in quel momento.
Allora non c’era Hamas ed era Arafat e Fatah il terrorista, il nemico numero uno da debellare e spazzare via dalla Palestina.
Ma invece di Fatah Israele anche allora colpi e uccise indiscriminatamente decine di civili, radendo al suolo anche la casa della nostra amica.
Tornando verso Gaza city l’automobile su cui viaggiavamo è sprofondata in un fosso scarificato sull’asfalto dai cingoli dei carri armati.
Il taxista si è voltato dicendomi: «La morte è passata di qui è ha lasciato le sue tracce». Chissà quanto tempo ci vorrà per curare questa terra e cicatrizzare le sue ferite.
Restiamo umani.