Come ogni anno, nella sala plenaria della Fao, si consuma il rito del World Food Day, la giornata dedicata all’alimentazione nella quale si prende atto del fatto che gli Obiettivi del Millennio lanciati dalle Nazioni Unite sono tutt’altro che raggiunti e che gli affamati invece di diminuire non fanno che aumentare. Come ogni anno la settimana verrà riempita da ogni sorta di iniziative, di manifestazioni e di celebrità che prestano il loro volto agli spot contro la fame, che regalano le loro opere – come la scultura di Gina Lollobrigida dedicata ai bambini poveri e inaugurata insieme a Carla Fracci in mattinata – o che lanciano i soliti appelli accorati per chiedere fondi più o meno come ha fatto ieri il Direttore generale della Fao, Jacques Diouf, nella conferenza d’apertura. Si tratterebbe insomma di trovare «19 miliardi di dollari da destinare alla crescita agricola e all’aumento della produttività nelle zone rurali, e 5 miliardi di dollari per i programmi che forniscono accesso diretto e immediato al cibo, per coloro che ne hanno urgente bisogno» cosa resa possibile dai «programmi di cancellazione del debito rafforzati dalla decisione presa nel 2005 dai paesi del G8» che hanno «reso disponibili maggiori risorse nazionali per gli investimenti in agricoltura» conclude Diouf. I rappresentanti più o meno autorevoli dei vari governi del mondo applaudono mentre il sottosegretario Stefano Boco – quest’anno, chissà perché, il ministro delle Risorse agricole e forestali non ha ritenuto necessario intervenire di persona – spende qualche parola sulla questione della sostenibilità ambientale.
Ma davvero “Investire nell’agricoltura per la sicurezza alimentare”, che sarebbe poi il tema del World Food Day di quest’anno, servirebbe a nutrire quegli 850 milioni di persone che ancora soffrono la fame e che durante il primo Summit mondiale, dieci anni fa, erano 800 milioni? Davvero le ulteriori liberalizzazioni sostenute da un po’ di fondi per i più svantaggiati – il cosiddetto Aid for Trade ovvero l’Aiuto al commercio che, secondo il Wto, può difendere i piccoli agricoltori dall’assalto delle grandi corporation – possono garantire cibo per tutti? Per avere una risposta basta aspettare, nel pomeriggio, la sessione dedicata all’incontro con la società civile riunita nel Comitato Internazionale di Pianificazione per la Sovranità alimentare. Sì perché nella Green Room, dove si sono dati il cambio al microfono i rappresentanti di contadini, indigeni, ambientalisti e società civile, si sono sentite altre parole. Parole che raccontano di una crisi che continua ad avanzare attraverso le esperienze concrete di chi lavora sul campo. Fatoumata Keita, della Coordination Nazionale des Organisation Paysannes del Mali ha raccontato ad esempio del disperato tentativo delle donne del suo paese di risalire la filiera attraverso la piccola industria della trasformazione, mentre Carlos Garcia Imenez, dell’Università contadina del Sud, ha parlato dei contadini messicani letteralmente rovinati dalle liberalizzazioni degli ultimi anni così come sono stati rovinati i pescatori artigianali del Cile, come raccontato da Vargas Quinciaman, rappresentante della comunità di indios mapuche. Va precisato che non tutte le organizzazioni e i movimenti sociali che fanno parte del Comitato Internazionale sono d’accordo sulle valutazioni relative ai negoziati del Wto: alcuni considerano positivamente il fallimento del ciclo di Doha mentre altri pensano che sia una iattura, ma nessuno crede che il mercato da solo possa risolvere ogni male. Il motivo è ben riassunto da Antonio Tricarico della Campagna per la Riforma della Banca Mondiale che avverte «non sono mai i contadini o i poveri a beneficiare di programmi di investimento come quelli della Banca Mondiale, tutti concepiti all’interno della logica del mercato». Prima di parlare di investimenti, secondo Tricarico, bisogna risolvere tre grandi problemi che affliggono i contadini di tutto il mondo. Al primo posto c’è la redistribuzione delle terre ovvero delle serie riforme agrarie che, se non vengono fatte, rendono la questione dei finanziamenti del tutto virtuale. Ma si tratta di riforme che vanno attuate con un’attenzione particolare alla qualità della terra e al tipo di organizzazione produttiva che viene consentita, attenzioni sconosciute in molti paesi che stanno cercando di attuare delle riforme agrarie come ad esempio Brasile e Sudafrica ma anche Messico, Guatemala e Filippine.
Dopo l’accesso alla terra è necessario poi occuparsi dei mercati locali, mai presi in considerazione dagli architetti dei grandi progetti di finanziamento che sanno solo recitare il «mantra dell’export» come lo chiama Tricarico, anche se è ben chiaro che non sono certo le grandi imprese dell’agro-business impegnate nell’agricoltura da esportazione a garantire la sicurezza alimentare dei poveri. Eppure sono proprio le grandi imprese a ricevere la più grande mole di aiuti in sussidi, sovvenzioni o esenzioni fiscali, cosa che, come è noto, consente loro di invadere distruggere i piccoli coltivatori con prodotti dai prezzi concorrenziali alimentando il circolo vizioso della fame. Infine, conclude Tricarico, qualunque misura di sostegno è destinata a fallire «se non si trova un modo per stabilizzare il prezzo delle materie prime alimentari» le cui fluttuazioni sono legate più ai giochi speculativi di borsa che ai reali costi di produzione.